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GUNTHER ANDERS - L'uomo è antiquato - Macchina

Die Antiquierheit des Menschen, da tradurre letteralmente con l’Antiquatezza dell’Uomo, è un’opera scritta in due tempi dal filosofo tedesco Günther Anders. I due volumi che la compongono, sebbene pubblicati a distanza di un quarto di secolo l’uno dall’altro – il Vol. I nel 1956 e il Vol. II nel 1980 – si presentano sostanzialmente unitari e coerenti nell’impianto concettuale e filosofico.

Il tema della vergona prometeica che è al centro del passo proposto è tratto dal I volume dell’opera. In esso, Anders espone la teoria del cosiddetto "dislivello prometeico", ossia il riconoscimento della divaricazione ogni giorno più evidente che allontana l’Umano dai suoi stessi prodotti, i quali appartengono di fatto al dominio della Tecnica. In questo contesto la vergogna non è altro che il segno visibile del dislivello prometeico e si caratterizza soprattutto come turbamento identitario, come una vergogna della propria origine. L’uomo, davanti alla perfezione delle macchine, ha imbarazzo di se stesso, della propria origine contingente e, paradossalmente, si vergogna di essere ancora troppo umano in un mondo di prodotti artificiali. 

Gli echi di questa riflessione non hanno segnato solamente il dibattito novecentesco sulla Macchina ma, a guardar bene, si ritrovano anche in alcuni grandi capolavori del cinema – su tutti si pensi al Blade Runner di Ridley Scott – e della letteratura di fantascienza – come Do Androids Dream of Electric Sheep di P. K. Dick.

 

I.   Primo incontro con la vergogna prometeica.

L’odierno Prometeo domanda: Chi sono mai?

Comincio con alcuni appunti di diario presi in California

11 Marzo 1942

Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, vergogna prometeica, e intendo con ciò "vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi".

Si è aperta qui un’esposizione tecnica e insieme a T. ho preso parte a una visita guidata. T. si è comportato in modo stranissimo; tanto strano che, da ultimo, osservavo solo lui invece delle macchine esposte. Infatti, non appena uno dei complicatissimi pezzi veniva messo in azione, abbassava gli occhi e ammutoliva. Ancora più curioso il fatto che nascondeva le mani dietro la schiena, come se si vergognasse di aver portato questi suoi arnesi pesanti, goffi e antiquati, all'alto cospetto di apparecchi funzionanti con tanta precisione e raffinatezza. Ma questo "come se si vergognasse" è un’espressione troppo timorosa. Tutto l’insieme del suo comportamento non lasciava adito a dubbi. Gli oggetti di cui conosceva l’esemplarità, la superiorità, l’appartenenza ad una più elevata classe dell’essere, per lui tenevano realmente il posto che per i suoi antenati avevano avuto le autorità o le classi sociali riconosciute superiori. Doversi presentare al cospetto di quei meccanismi perfetti nella sua goffaggine di essere di carne, nella sua imprecisione di creatura, gli era realmente insopportabile; si vergognava davvero.

Se cerco di approfondire questa vergogna prometeica, trovo che il suo oggetto fondamentale, ossia la macchia fondamentale di chi si vergogna è l’Origine. T. si vergogna di essere divenuto invece di essere stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino nell’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita. La sua onta consiste dunque nel suo natum esse, nei suoi bassi natali; che egli giudica bassi proprio perché sono natali. Ma se egli

si vergogna di questa sua origine antiquata, si vergogna naturalmente anche del risultato difettoso e ineluttabile di questa origine: di se stesso.

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