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PLATONE - Protagora 320c – 323a (324d) - Racconto

In questo brano tratto dal Protagora di Platone, l’interlocutore di Socrate sceglie di argomentare la propria posizione, a favore della possibilità di insegnare l’arte politica, attraverso il racconto di un mito, il mito di Prometeo. Si stabilisce così un’equivalenza tra mito e logos, che vengono considerati modi equivalenti di dimostrazione, di fare filosofia. Nella successiva tradizione filosofica mito e logos verranno separati e contrapposti, privilegiando il logos.

Socrate […] Se hai, dunque, la possibilità di mostrarmi con maggior chiarezza che la virtù è insegnabile, non dire di no, ma dimostramelo.

Protagora – Ma no, Socrate, disse, non dirò di no: solo che, desiderate ve lo dimostri raccontando un mito, come i vecchi ai giovani, o esponendo un ragionamento? La maggior parte di coloro che gli stavano intorno rispose che esponesse come meglio voleva. – E allora, affermò, mi sembra più piacevole raccontarvi un mito.

XI. Tempo vi fu in cui esistevano gli dèi, ma non le stirpi mortali. Poi che giunse anche per le stirpi mortali il momento fatale della loro nascita, gli dèi ne fanno il calco in seno alla terra mescolando terra e fuoco e tutti quegli elementi che si compongono di terra e di fuoco. Ma nell’atto in cui stavano per trarre alla luce quelle stirpi, ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di distribuire a ciascuno facoltà naturali in modo conveniente. Epimeteo chiede a Prometeo che spetti a lui la cura della distribuzione: “E quando avrò compiuto la mia distribuzione – dice – tu controllerai”. E così, avendolo persuaso, si pone a distribuire. Ora, nel compiere la sua distribuzione, ad alcuni assegnava forza senza velocità, mentre forniva di velocità i più deboli; alcuni armava, mentre per altri che rendeva per natura inermi, escogitava qualche altro mezzo di salvezza. A quegli esseri che rinchiudeva in un piccolo corpo, assegnava ali per fuggire o sotterranea dimora; quelli che, invece, dotava di grande dimensione, proprio con questo li salvaguardava. E così distribuiva tutto il resto, sì che tutto fosse in equilibrio. Ed escogitò tale principio preoccupandosi che una qualche stirpe non dovesse estinguersi. Dopo che li ebbe provvisti di mezzi per sfuggire le reciproche distruzioni, escogitò anche agevoli modi per proteggerli dalle intemperie delle stagioni di Zeus: li avvolse, così, di folti peli e di dure pelli, che bastavano a difendere dal freddo, ma che sono anche capaci di proteggere dal caldo e tali inoltre da essere adatti quali naturale e propria coperta a ciascuno, quando avessero bisogno di dormire. E sotto i piedi ad alcuni dette zoccoli, ad altri unghie e pelli dure prive di sangue; ad alcuni procurava un tipo di alimento, ad altri un altro tipo; ad alcuni erba della terra, ad altri frutti degli alberi, ad altri ancora radici; ad alcuni poi dette come cibo la carne di altri animali, ma a questi concesse scarsa prolificità, mentre a quelli che n’erano preda abbondante prolificità, sì che la specie loro si conservasse. Solo che Epimeteo, al quale mancava compiuta sapienza, aveva consumato, senza accorgersene, tutte le facoltà naturali in favore degli esseri privi di ragione: gli rimaneva ancora da dotare il genere umano e non sapeva davvero cosa fare per trarsi di imbarazzo. Proprio mentre si trovava in tale imbarazzo sopraggiunse Prometeo a controllare la distribuzione: vede che tutti gli altri esseri viventi armoniosamente posseggono di tutto, e che invece l’uomo è nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi: era oramai imminente il giorno fatale, giorno in cui anche l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Prometeo allora, trovandosi appunto in grande imbarazzo per la salvezza dell’uomo, ruba a Efesto e ad Atena il sapere tecnico, insieme con il fuoco – ché senza il fuoco sarebbe stato impossibile acquistarlo o servirsene – e così ne fece dono all’uomo. L’uomo, dunque, ebbe in tal modo la scienza della vita, ma non aveva ancora la scienza politica: essa si trovava presso Zeus; né più era concesso a Prometeo di andare nell’acropoli, ov’è la dimora di Zeus (e davvero temibili erano, per di più, le guardie di Zeus); riesce, invece, a penetrare di nascosto nella comune dimora di Atena e di Efesto dove essi lavoravano insieme, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e l’altra propria di Atena, le dona all’uomo, che con quelle si procurò le agiatezze della vita. Solo che, come si narra, più tardi Prometeo dovette, a causa di Epimeteo, pagare la pena del furto.

XII. Come dunque l’uomo fu partecipe di sorte divina, innanzi tutto per la sua parentela con la divinità, unico tra gli esseri viventi, credette negli dèi, e si mise ad erigere altari e sacre statue; poi, usando l’arte, articolò ben presto la voce in parole e inventò case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che ci dà la terra. Così provveduti, da principio gli uomini vivevano sparsi, ché non v’erano città. E perciò erano distrutti dalle fiere, perché in tutto e per tutto erano più deboli di quelle, e la loro perizia pratica, pur essendo di adeguato aiuto a procurare il nutrimento, era assolutamente insufficiente nella lotta contro le fiere: non possedevano ancora l’arte politica, di cui quella bellica è parte. Cercarono, dunque, di radunarsi e di salvarsi fondando città: ma ogni qualvolta si radunavano, si recavano offesa tra di loro, proprio perché mancanti dell’arte politica, onde nuovamente si disperdevano e morivano. Allora Zeus, temendo per la nostra specie, minacciata di andar tutta distrutta, inviò Ermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia affinché servissero da ordinamento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia. Chiede Ermes a Zeus in qual modo debba dare agli uomini il pudore e la giustizia: “Debbo distribuire giustizia e pudore come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite così: uno solo che possegga l’arte medica basta per molti profani e lo stesso vale per le altre professioni. Anche giustizia e pudore debbo istituirli negli uomini nel medesimo modo, o debbo distribuirli a tutti?”. “A tutti, rispose Zeus, e che tutti ne abbiano parte: le città non potrebbero esistere se solo pochi possedessero pudore e giustizia, come avviene perle altre arti. Istituisci, dunque, a nome mio una legge per la quale sia messo a morte come peste della città chi non sappia avere in sé pudore e giustizia”. E così, Socrate, anche per questa ragione, gli Ateniesi e tutti gli altri, qualora si debba discutere della capacità architettonica o di qualche altra attività artigianale, ritengono che solo pochi abbiano il diritto di dare consigli, e se qualcuno che non appartenga a quei pochi pretenda di dare il proprio parere, non lo sopportano, come hai detto, e non a torto come dico io; qualora, invece, si accingano a deliberare su questioni relative alla capacità politica, che si impernia tutta sulla giustizia e sulla saggezza, è ragionevole che tutti vengano ammessi, poiché si ritiene necessario che ognuno sia partecipe di questa dote, o non esistano città. Ecco, Socrate, quale ne è la causa.

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