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JOHN LOCKE - Due trattati sul Governo - Privato

I Due Trattati sul Governo è una celebre opera scritta dal filosofo inglese John Locke, e pubblicata anonima nel 1690, all’indomani della Gloriosa Rivoluzione di cui proprio Locke era stato un convinto sostenitore.

In queste pagine si respira dunque il profondo mutamento delle condizioni storiche che portarono alla cacciata di Giacomo II Stuart e alla definitiva affermazione del parlamentarismo inglese quale argine invalicabile al potere monarchico.

Ecco allora che, come Locke ricorda già a partire dalla prefazione, nei Due Trattati il lettore si trova davanti “l’inizio e la fine di un discorso sul governo”. Ma l’uso dell’articolo indeterminativo qui non deve ingannare. Non si tratta infatti di un discorso qualsiasi, ma del discorso che considera i diritti naturali di cui l’uomo è portatore come fondamento inalienabile di qualsiasi forma legittima di governo.

Com’è noto, per Locke il diritto alla proprietà rappresenta un tassello essenziale di questi diritti naturali inalienabili. Una tesi che, come mostrato nel testo riportato di seguito, il filosofo inglese argomenta a partire dalla semplice affermazione “che ogni uomo è proprietario della sua propria persona”.

Capitolo V. DELLA PROPRIETÀ

25. Sia che si consideri la ragione naturale, che ci dice che gli uomini, una volta nati, hanno un diritto alla loro conservazione, e conseguentemente a mangiare e bere, e ad altre simili cose cui la natura provvede per la loro sussistenza; sia che si consideri la rivelazione, che ci offre un resoconto delle concessioni che Dio fece del mondo a Adamo, a Noè e ai suoi figli, è chiaro che Dio, come dice re David (Salmo CXV, 16): “ha dato la terra ai figli degli uomini”, l’ha data in comune all’umanità. Se si presuppone ciò, sembra ad alcuni una difficoltà davvero grande spiegare come si possa mai giungere ad avere la proprietà di qualsiasi cosa. Non mi accontenterò di rispondere che, se è difficile arrivare alla proprietà, in base al presupposto che Dio dette la terra a Adamo e ai suoi discendenti in comune, è addirittura impossibile che un qualsiasi uomo, che non sia un monarca universale, abbia una qualsia- si proprietà in base al presupposto che Dio dette il mondo a Adamo e ai suoi eredi dopo di lui, con l’esclusione del resto della sua discendenza. Tenterò, tuttavia, di mostrare come gli uomini possano venire ad avere una proprietà in diverse parti di quello che Dio diede in comune all’umanità, e ciò senza un esplicito patto di tutti i membri della comunità (Commoners).

26. Dio, che ha dato il mondo agli uomini in comune, ha anche dato loro la ragione per far uso di essa nel modo più vantaggioso per la loro vita e la loro utilità. La terra e tutto ciò che si trova in essa sono dati agli uomini per il loro sostentamento e benessere. E sebbene tutti i frutti che la terra naturalmente produce, e le bestie che nutre, appartengano all’umanità in comune, dal momento che sono prodotti spontaneamente dalla natura, e nessuno ne ha originariamente un dominio privato a esclusione del resto dell’umanità, in quanto essi si trovano così nel loro stato naturale; tuttavia essendo per l’uso degli uomini, deve esserci di necessità un mezzo per appropriarsi di essi in un modo o nell’altro prima che possano essere di alcuna utilità, o di qualche beneficio a un qualsiasi singolo uomo. Il frutto o la cacciagione di cui si nutre l’indiano selvaggio, che non conosce recinzioni della terra e ancora ne fa uso comune, devono essere suoi, e così suoi, ovvero, così parte di lui, che un altro non può più avervi alcun diritto, se non quando possa essergli utile per la sussistenza della sua vita.

27. Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, tuttavia ogni uomo ha una proprietà sulla sua propria persona (every Man has a Property in his own Person): su questa nessuno ha diritto se non lui stesso. La fatica del suo corpo e il lavoro delle sue mani, si può dire, sono propriamente suoi. Qualsiasi cosa, dunque, egli rimuova dallo stato in cui la natura l’ha fornita e lasciata, qualsiasi cosa alla quale abbia mescolato (mixed) il suo lavoro, e alla quale abbia aggiunto qualcosa di proprio, perciò stesso diviene sua proprietà. Essendo rimossa da lui dalla condizione comune in cui la natura l’ha collocata, essa acquista con questo lavoro qualcosa che la esclude dalla proprietà comune degli altri uomini. Poiché infatti il lavoro è proprietà indiscussa del lavoratore, nessuno se non lui stesso può avere diritto su ciò a cui si è unito il suo lavoro, almeno finché ne rimane abbastanza e di abbastanza buono per altri.

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