L’io che ci contraddistingue è un qualcosa di molto complesso; è dunque così esteso da rendere difficile il riuscire a tracciare confini netti e distinti.
Alla ricerca dell’io perduto
La bellissima Liriope interroga l’indovino Tiresia sul destino del figlio Narciso. Narciso, risponde Tiresia, vivrà a lungo e felice si se non noverit, “se non conoscerà se stesso” (Ov., Met., III, 348). La notizia della morte di Narciso alla disperata scoperta di se stesso “accrebbe la fama di Tiresia in tutte le città dell’Acaia, e grande divenne il nome dell’augure” (vv. 511-512). Tiresia, lo sappiamo, è accanto anche a Edipo nella disperata ricerca di un’identità incerta, o meglio perduta: è accanto a Penteo che, alla fine delle Baccanti, vestito da donna, sale il Citerone per conoscersi. L’io è da sempre a rischio: l’io è da sempre avventura.
La filosofia, a partire dal genio che l’ha inventata, da Platone, ha cercato di marcare dei confini che rendessero i percorsi dell’io meno avventurosi, il suo viaggio meno incerto e pericoloso. Nella sua storia la filosofia ha dichiarato che l’io, di fatto, è l’io che conosce, e la sua parte, per così dire residuale, il pathos, l’aritmia di Eros, la coscienza della morte, diventano “fenomeni”, emergenze che non hanno pertinenza conoscitiva […] e che di fatto non riguardano l’essenza dell’io. Questo gesto accompagna la filosofia in tutta la sua storia, anzi, a ogni suo tornante, viene ribadito e confermato. Ma ha ragione Agostino. L’io è “una vasta vita multiforme e violentemente immensa” di cui è difficile trovare confine: Finis nusquam.
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