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CARTESIO - Meditazioni metafisiche, estratti dalla quarta meditazione - Imperfezione II

Partendo dalla quarta meditazione Cartesio si chiede se l’errore possa essere mancanza di qualche perfezione, ma in risposta a questa domanda Cartesio ci dirà che invece esso è privazione di una qualche conoscenza. L’imperfezione assume un nuovo significato metafisico che la rende parte di un ordine perfetto dato da Dio, un ordine che rende l’imperfezione stessa “perfettissima”

Io sono un termine medio tra Dio e il nulla, cioè posto in tal modo tra il sovrano essere e il non essere, che, a dir vero, non si trova in me nulla che possa indurmi in errore, in quanto un sovrano essere mi ha prodotto, ma che, se mi considero come partecipante in certo modo del niente o del non essere, cioè in quanto non sono io stesso il sovrano essere, mi trovo esposto ad un’infinità di mancamenti, di modo che non mi debbo stupire se m’inganno.

Così io conosco che l’errore, in quanto tale, non è qualcosa di reale, che dipende da Dio, ma è solamente un difetto, e pertanto che io non ho bisogno per errare di qualche facoltà che mi sia stata data da Dio particolarmente per quest’effetto, ma che accade che io m’inganni pel fatto che la facoltà, che Dio mi ha dato per discernere il vero dal falso, non è in me infinita.

Tuttavia ciò non mi soddisfa ancora del tutto; perché l’errore non è pura negazione, cioè non è il semplice difetto o mancamento di qualche perfezione, che non mi è dovuta, ma piuttosto è una privazione di qualche conoscenza, che sembra che io dovrei possedere. E considerando la natura di Dio, non mi sembra possibile ch’egli m’abbia dato qualche facoltà che sia imperfetta nel suo genere, cioè che manchi di qualche perfezione che le sia dovuta; perché, se è vero che più l’artigiano è esperto, più le opere che escono dalle sue mani sono perfette e compiute, quale essere immagineremo noi essere stato prodotto da questo sovrano creatore di tutte le cose, che non sia perfetto ed interamente compiuto in tutte le sue parti? E certo non vi è dubbio che Dio avrebbe potuto crearmi tale, che io non mi potessi mai ingannare; certo è anche che egli vuole sempre il meglio: m’è, dunque, più utile errare che non errare?”.

[…] Di più, mi viene ancora in mente che, quando si cerca se le opere di Dio siano perfette, non si deve considerare una sola creatura separatamente, ma in generale tutte le creature assieme. Perché la stessa cosa, che potrebbe forse, con qualche sorta di ragione, sembrare imperfettissima se fosse sola, si trova essere perfettissima nella sua natura, se è considerata come parte di tutto questo universo”.
Non saprei negare che egli abbia prodotto molte altre cose, o almeno che possa produrne, in modo che io esista e sia posto nel mondo come appartenente all’università di tutti gli esseri”.

[…] Dopo di che, guardandomi più da vicino, e considerando i miei errori (i quali soli testimoniano che in me v’è dell’imperfezione), trovo che dipendono dal concorso di due cause, e cioè dalla facoltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere, o libero arbitrio: ossia dal mio intelletto ed insieme dalla mia volontà. Poiché, con l’intelletto solo, io non affermo né nego alcuna cosa, ma concepisco solamente le idee delle cose, che posso affermare o negare”.

[…] Io non posso neppure lamentarmi che Dio mi abbia dato un libero arbitrio, o una volontà assai ampia e perfetta. Non vi è che la sola volontà [voluntas sive arbitrii libertas], che io sperimenti in me così grande, che non concepisco l’idea di nessun’altra più ampia e più estesa: di modo che essa principalmente mi fa conoscere che reco l’immagine e la rassomiglianza di Dio. Perché, sebbene essa sia incomparabilmente più grande in Dio che in me, così in ragione della conoscenza e della potenza, che trovandovisi congiunte la rendono più ferma e più efficace, come in ragione dell’oggetto, in quanto essa si riferisce ad un numero infinitamente maggiore di cose, essa non mi sembra, tuttavia, più grande, se la considero formalmente e precisamente in se stessa. Poiché essa consiste solamente in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè affermare o negare, seguire o fuggire); o piuttosto solamente in questo: che, per affermare o negare, seguire o fuggire le cose che l’intelletto ci propone, noi agiamo in modo, che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore”.

[…] Dunque, donde nascono i miei errori? Da ciò solo, che la volontà essendo molto più ampia e più estesa dell’intelletto, io non la contengo negli stessi limiti, ma l’estendo anche alle cose che non intendo, alle quali essendo di per sé indifferente, essa si smarrisce assai facilmente, e sceglie il male per il bene, o il falso per il vero. E questo fa sì ch’io m’inganni e pecchi”.

[…] Se io mi astengo dal dare il mio giudizio sopra una cosa, quando non la concepisco con sufficiente chiarezza e distinzione, è evidente che del giudizio fo un ottimo uso, e non sono ingannato; ma se mi determino a negarla o ad affermarla, allora non mi servo più come debbo del mio libero arbitrio; e se affermo ciò che non è vero, è evidente che m’inganno, e quand’anche m’avvenga di giudicare secondo verità, questo non accade che per caso, e perciò io erro ugualmente ed uso male del mio libero arbitrio; perché la luce naturale c’insegna che la conoscenza deve sempre precedere la determinazione della volontà”.

[…] Essendo la volontà una cosa sola, ed il suo soggetto essendo come indivisibile, sembra che la sua natura sia tale, che non si saprebbe nulla toglierne senza distruggerla”.

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