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BRUNO BETTELHEIM - Il mondo incantato - Racconto

Nell’opera Il mondo incantato di Bruno Bettelheim, l’autore analizza la forma del racconto fiabesco, attraverso un’interpretazione psicanalitica di alcune tra le più celebri fiabe tratte dal repertorio dei fratelli Grimm. All’interno delle fiabe, se queste non vengono edulcorate e quindi snaturate dei loro contenuti più inquietanti che sono però anche i più significativi, si possono rintracciare alcuni elementi comuni ad esse, archetipici, dei temi ricorrenti, che possono aiutare il bambino a confrontarsi con sé stesso e ad affrontare e placare paure e inquietudini. Il racconto fiabesco più di tutti gli altri diventa così un fondamentale strumento di crescita e di consapevole confronto con il mondo degli adulti.

Parte prima

Un pizzico di magia

La vita divinata dall’intimo

“Cappuccetto Rosso fu il mio primo amore. Sentivo che se avessi potuto sposare Cappuccetto Rosso avrei conosciuto la perfetta felicità.” Quest’affermazione di Charles Dickens indica che, come innumerevoli migliaia di bambini di tutto il mondo in tutte le epoche, fu estasiato dalle fiabe. Anche quando ebbe raggiunto una fama mondiale, Dickens riconobbe il profondo impatto formativo che i personaggi e gli eventi meravigliosi delle fiabe avevano avuto su di lui e sul suo genio creativo. Egli espresse più volte disprezzo per coloro che, motivati da una razionalità sterile e meschina, insistettero nel razionalizzare, espurgare o mettere al bando queste storie, privando così i bambini degli importanti contributi che le fiabe potevano offrire alle loro vite. Dickens comprese che la ricchezza d’immagini delle fiabe aiuta i bambini meglio di qualunque altra cosa nel loro più difficile eppure più importante e soddisfacente compito: quello di raggiungere una coscienza più matura per civilizzare le pressioni caotiche del loro inconscio.

Oggi, come in passato, le menti sia dei bambini creativi sia di quelli normali possono essere aperte all’apprezzamento di tutte le cose più elevate della vita dalle fiabe, da cui possono passare facilmente al godimento dei principali capolavori letterari e artistici. Il poeta Louis Mac Neice, per esempio, osserva: “Le fiabe autentiche significarono sempre molto per me come persona, anche quando frequentavo la scuola pubblica, dove ammettere una cosa simile significava perdere la faccia. Contrariamente a quello che molti affermano anche oggi, la fiaba, almeno quella classica, popolare, è qualcosa di molto più consistente della comune novella naturalistica, che scava poco più a fondo di quanto possa farlo un articolo di cronaca mondana. Da leggende popolari e sofisticate fiabe come quelle di Hans Andersen o della mitologia norvegese e da libri come Alice e Water Babies passai, intorno ai dodici anni, a Faerie Queene.” Critici letterari come G. K. Chesterton e C.S. Lewis capirono che le fiabe sono “esplorazioni spirituali” e quindi “estremamente realistiche” dato che rivelano “la vita umana come è vista o sentita o intuita dall’intimo.”

Le fiabe, a differenza di qualsiasi altra forma di letteratura, indirizzano il bambino verso la scoperta della sua identità e della sua vocazione, e suggeriscono inoltre quali esperienze sono necessarie per sviluppare ulteriormente il suo carattere. Le fiabe suggeriscono che una vita, gratificante e positiva è alla portata di ciascuno nonostante le avversità, ma soltanto se non si cerca di evitare le rischiose lotte senza le quali nessuno può mai raggiungere una vera identità. Queste storie assicurano che se un bambino ha il coraggio di affrontare questa terrificante e dura ricerca, potenze benevole interverranno in suo aiuto, ed egli riuscirà. Esse ci avvertono inoltre che coloro che sono troppo timorosi e di mentalità ristretta per mettere a repentaglio se stessi in questa ricerca della propria identità devono accontentarsi di un’esistenza monotona, sempre che non si abbatta su di loro un destino ancora peggiore.

Le passate generazioni di bambini che amarono le fiabe e avvertirono la loro importanza furono soggette a sprezzanti critiche soltanto da parte dei pedanti, come avvenne a MacNeice. Oggigiorno molti dei nostri bambini sono molto più gravemente defraudati, perché sono privati della possibilità stessa di conoscere le fiabe. Oggi la maggior parte dei bambini conosce le fiabe solo in versioni edulcorate e semplificate che attenuano il loro significato e le privano dei contenuti più profondi: versioni come quelle dei film e degli spettacoli televisivi trasformano le fiabe in uno spettacolo privo di significato.

Per la maggior parte della storia dell’uomo, la vita intellettuale di un bambino, a parte esperienze immediate nell’ambito della famiglia, dipese da storie mitiche e religiose e da fiabe. Questa letteratura tradizionale alimentò l’immaginazione del bambino e stimolò la sua vita fantastica. Nello stesso tempo queste storie, dato che rispondevano ai più importanti interrogativi del bambino, furono un fattore importantissimo della sua socializzazione. I miti e, assai affini ad essi, le leggende religiose offrirono materiale sul quale i bambini costruirono i loro concetti dell’origine e dello scopo del mondo, e degli ideali sociali sul cui modello plasmarsi. Parliamo delle figure dell’invitto eroe Achille e dell’astuto Ulisse, di Ercole, la cui storia mostrò che anche il più forte degli uomini può pulire la più sporca delle stalle senza venir meno alla propria dignità, di san Martino, che tagliò in due il suo mantello per vestire un povero mendicante. Non è solo dal tempo di Freud che il mito di Edipo è diventato l’immagine attraverso la quale comprendiamo i sempre nuovi ma antichissimi problemi che ci vengono posti dai nostri complessi e ambivalenti sentimenti circa i nostri genitori. Freud si rifece a quest’antica storia per renderci consapevoli dell’inevitabile calderone d’emozioni che ogni bambino, a modo suo, deve saper affrontare a una certa età.

Nella civiltà indù, la storia di Rama e Sita (compresa nel Ramayana), che parla del loro tranquillo coraggio e della loro appassionata devozione reciproca, è il prototipo delle relazioni amorose e coniugali.

La cultura, inoltre, ingiunge a ciascuno di cercare di far rivivere questo mito nella propria vita; ogni sposa indù è chiamata Sita, e durante la sua cerimonia nuziale recita taluni episodi del mito.

In una fiaba, i processi interiori sono esteriorizzati e diventano comprensibili così come sono rappresentati dai personaggi della storia e dai suoi eventi. E’ per questo che nella medicina indù tradizionale veniva assegnata a un individuo psichicamente disorientato una fiaba che interpretava il suo particolare problema. Egli doveva farne l’oggetto della sua meditazione, e ci si aspettava che in questo modo fosse indotto a visualizzare sia la natura delle sue difficoltà sia la possibilità di superarle. In base a quanto una particolare fiaba significava in relazione alla disperazione e alle speranze dell’uomo e ai metodi per superare le tribolazioni della vita, il paziente poteva scoprire non solo un sistema per liberarsi dalla sua angoscia ma anche per trovare se stesso, come aveva fatto l’eroe della storia.

Ma l’importanza principale delle fiabe per l’individuo in fase di crescita risiede in qualcosa di diverso da insegnamenti sui modi corretti di comportarsi in questo mondo: tale tipo di saggezza è fornito copiosamente da religioni, miti e favole. Le fiabe non pretendono di descrivere il mondo così com’è, né consigliano sul da farsi. Se lo facessero, il paziente indù sarebbe indotto a seguire un tipo di comportamento imposto: il che non è semplicemente cattiva terapia, ma anzi l’opposto della terapia. La fiaba è terapeutica perché il paziente trova le sue proprie soluzioni, meditando su quanto la storia sembra implicare nei suoi riguardi e circa i suoi conflitti interiori in quel momento della sua vita. Il contenuto della fiaba prescelta non ha in genere niente a che fare con la vita esterna del paziente, ma molto coi suoi problemi interiori, che sembrano incomprensibili e di conseguenza insolubili. Chiaramente, la fiaba non si riferisce al mondo esterno, anche se può iniziare in modo abbastanza realistico e avere, intessuti in essa, elementi della vita di tutti i giorni. La natura non realistica di queste fiabe (oggetto delle obiezioni di razionalisti dalle anguste vedute) è un importante espediente, perché evidenzia che il proposito della fiaba non è quello di comunicare utili informazioni circa il mondo esterno, ma di chiarire i processi interiori che hanno luogo in un individuo.

Nella maggior parte delle culture non c’è una linea netta che separi il mito dalla novella popolare o dalla fiaba; esse costituiscono nella loro totalità la letteratura delle società preletterate. Le lingue nordiche hanno un’unica parola per entrambe: saga. Il tedesco ha mantenuto la parola Sage per i miti, mentre le fiabe si chiamano Maerchen. E’ un peccato che la denominazione inglese e quella francese di queste storie sottolineino entrambe il ruolo che vi svolgono le fate, perché nella maggior parte di esse non compare nessuna fata. Tanto i miti quanto le fiabe acquistano una forma definita soltanto quando sono affidate alla scrittura e non vengono più soggette a continue modificazioni. Prima di ricevere una versione scritta, queste storie venivano compendiate oppure abbondantemente rielaborate passando di bocca in bocca per secoli; certe storie si fusero con altre.

Tutte risultarono modificate da quello secondo il narratore era di maggior interesse per i suoi ascoltatori, da quelle che erano le sue preoccupazioni del momento o dai problemi della sua epoca.

Certe fiabe e storie popolari si evolsero dai miti; altre s’incorporarono in essi. Entrambe le forme racchiusero l’esperienza globale di una società, perché gli uomini vollero ricordare la saggezza degli antichi a proprio beneficio e trasmetterla alle future generazioni. Queste storie offrono profonde intuizioni che hanno sostenuto l’umanità attraverso le lunghe vicissitudini della sua esistenza: un retaggio che non è rivelato in nessun’altra forma in un modo così semplice e diretto, o così accessibile ai bambini.

Miti e fiabe hanno molto in comune. Ma nei miti, molto più che nelle fiabe, l’eroe culturale è presentato all’ascoltatore come una figura che egli dovrebbe, il più possibile, emulare nella propria vita.

Un mito, come una fiaba, può esprimere un conflitto interiore in forma simbolica e suggerire come può essere risolto: ma questo non è necessariamente l’intento principale del mito. Il mito presenta il suo tema in una forma grandiosa, è latore di forza spirituale, e il divino è presente e viene percepito sotto forma degli eroi sovrumani che pongono continue richieste ai semplici mortali. Per quanto noi, i mortali possiamo sforzarci di essere come questi eroi, rimarremo per sempre ovviamente inferiori ad essi.

I personaggi e gli eventi delle fiabe personificano e illustrano anche conflitti interiori, ma suggeriscono in modo estremamente sottile come questi conflitti possono essere risolti, e quali potrebbero essere i passi successivi nello sviluppo verso una superiore umanità. La fiaba è presentata in modo semplice, familiare; nessuna richiesta viene posta all’ascoltatore. Ciò fa sì che anche il bambino più piccolo non si senta costretto ad agire in modi particolari e non sia mai indotto a sentirsi inferiore. Lungi dal porre richieste, la fiaba rassicura, infonde speranza nel futuro e offre la promessa di un lieto fine. Per questo Lewis Carroll la chiamò un “dono d’amore”: un termine difficilmente applicabile a un mito.*

Ovviamente, non è che ogni storia compresa in una raccolta intitolata Fiabe rispetti questi criteri.

Molte di queste storie sono semplicemente racconti di evasione, storie con una morale o favole. Se sono favole, dicono per mezzo di parole, azioni o eventi - per quanto favolosi possano essere - quello che una persona dovrebbe fare. Le favole impongono e minacciano, moralisticamente, oppure hanno una semplice funzione di svago. Per decidere se una storia è una fiaba o qualcosa di completamente diverso, bisognerebbe chiedersi se si potrebbe definirla a buon diritto un dono d’amore fatto a un bambino. Questo può essere un buon sistema per giungere a una classificazione.

Per capire come un bambino considera le fiabe, prendiamo come esempi le molte storie dove un bambino mette nel sacco un gigante che lo spaventa o addirittura minaccia la sua vita. Che i bambini comprendano a livello intuitivo che cosa questi “giganti” rappresentino è illustrato dalla reazione spontanea di un bambino di cinque anni.

Incoraggiata da una discussione sull’importanza che le fiabe hanno per i bambini, una madre superò la propria esitazione a raccontare al suo figlioletto storie così “cruenti e truculente.” Dalle sue conversazioni con lui seppe che suo figlio aveva già fantasie circa persone che mangiavano propri simili o ne venivano divorate. Allora gli raccontò la storia di Jack l’Ammazzagiganti4 La reazione del piccolo alla fine della storia fu questa: “Ma esseri come i giganti non esistono, vero?” Prima che la madre potesse dare a suo figlio la risposta rassicurante che aveva sulle labbra — e che avrebbe distrutto per lui il valore della storia — continuò con questa considerazione: “Però esistono esseri come gli adulti, e loro sono come giganti.” Alla matura e veneranda età di cinque anni, gli comprese l’incoraggiante messaggio della storia: benché gli adulti possano essere percepiti come paurosi giganti, un ragazzino furbetto può fregarli.

Quest’osservazione rivela un motivo della riluttanza degli adulti a raccontare fiabe: ci mette a disagio il pensiero che a volte i nostri figlioletti ci vedono come minacciosi giganti, anche se è un pensiero che corrisponde alla verità. Né vogliamo accettare la loro convinzione che sia facile ingannarci, o prenderci in giro, e come quest’idea li diverta. Ma, che noi gli si racconti delle fiabe o meno, essi ci vedono sempre come giganti egoisti che vogliono tenere per sé tutte le cose meravigliose da cui traggono il loro potere.

Le fiabe assicurano ai bambini che alla fine potranno avere la meglio sul gigante: vale a dire che possono diventare grandi come il gigante e acquisire gli stessi poteri. Sono queste le “possenti speranze che ci rendono uomini.”

Fatto ancora più significativo, se noi genitori raccontiamo queste fiabe ai nostri bambini possiamo dargli la rassicurazione più importante su tutte: noi approviamo che essi accarezzino l’idea di avere la meglio su quei giganti. Qui leggere la storia non equivale a farsela raccontare, perché leggendola da solo il bambino può pensare che soltanto un estraneo - la persona che la scrisse o che curò il libro - approva il fatto d’ingannare e di ridimensionare il gigante. Ma quando sono i suoi genitori a raccontargli la storia, un bambino può essere più sicuro che essi lo approvano quando nella sua fantasia si vendica della minaccia costituita dalla dominazione degli adulti.

Per decidere se una storia è una fiaba o qualcosa di completamente diverso, bisognerebbe chiedersi se si potrebbe definirla a buon diritto un dono d’amore fatto a un bambino. Questo può essere un buon sistema per giungere a una classificazione.

Per capire come un bambino considera le fiabe, prendiamo come esempi le molte storie dove un bambino mette nel sacco un gigante che lo spaventa o addirittura minaccia la sua vita. Che i bambini comprendano a livello intuitivo che cosa questi “giganti” rappresentino è illustrato dalla reazione spontanea di un bambino di cinque anni.

Incoraggiata da una discussione sull’importanza che le fiabe hanno per i bambini, una madre superò la propria esitazione a raccontare al suo figlioletto storie così “cruenti e truculente.” Dalle sue conversazioni con lui seppe che suo figlio aveva già fantasie circa persone che mangiavano propri simili o ne venivano divorate. Allora gli raccontò la storia di Jack l’Ammazzagiganti. La reazione del piccolo alla fine della storia fu questa: “Ma esseri come i giganti non esistono, vero?” Prima che la madre potesse dare a suo figlio la risposta rassicurante che aveva sulle labbra — e che avrebbe distrutto per lui il valore della storia — continuò con questa considerazione: “Però esistono esseri come gli adulti, e loro sono come giganti.” Alla matura e veneranda età di cinque anni, gli comprese l’incoraggiante messaggio della storia: benché gli adulti possano essere percepiti come paurosi giganti, un ragazzino furbetto può fregarli.

Quest’osservazione rivela un motivo della riluttanza degli adulti a raccontare fiabe: ci mette a disagio il pensiero che a volte i nostri figlioletti ci vedono come minacciosi giganti, anche se è un pensiero che corrisponde alla verità. Né vogliamo accettare la loro convinzione che sia facile ingannarci, o prenderci in giro, e come quest’idea li diverta. Ma, che noi gli si racconti delle fiabe o meno, essi ci vedono sempre come giganti egoisti che vogliono tenere per sé tutte le cose meravigliose da cui traggono il loro potere.

Le fiabe assicurano ai bambini che alla fine potranno avere la meglio sul gigante: vale a dire che possono diventare grandi come il gigante e acquisire gli stessi poteri. Sono queste le “possenti speranze che ci rendono uomini.”

Fatto ancora più significativo, se noi genitori raccontiamo queste fiabe ai nostri bambini possiamo dargli la rassicurazione più importante su tutte: noi approviamo che essi accarezzino l’idea di avere la meglio su quei giganti. Qui leggere la storia non equivale a farsela raccontare, perché leggendola da solo il bambino può pensare che soltanto un estraneo - la persona che la scrisse o che curò il libro - approva il fatto d’ingannare e di ridimensionare il gigante. Ma quando sono i suoi genitori a raccontargli la storia, un bambino può essere più sicuro che essi lo approvano quando nella sua fantasia si vendica della minaccia costituita dalla dominazione degli adulti.

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