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UMBERTO GALIMBERTI – I vizi capitali e i nuovi vizi - Autostima

In questo passaggio il filosofo propone una profonda riflessione sul modo in cui viene percepita l’ira al maschile e al femminile e di come questo rappresenti esattamente la prosecuzione di quello stereotipo che vede le donne come soggetti sottomessi all’uomo. Il ragionamento si conclude considerando come l’ira, se sfogata nel modo giusto, possa portare a rafforzare l’autostima.

Facciamoci carico delle nostre passioni e, invece di comprimerle come il senso comune, l'ipocrisia e una cattiva scuola religiosa ci hanno insegnato, diamo loro espressione avendo cura della “giusta misura”. Quella giusta misura che non vediamo nell'ira quando è espressa dalle donne invece che dagli uomini, dai poveri invece che dai ricchi.

L'ira, infatti, è un modo di riaffermare se stessi e il proprio mondo dei valori. Eppure, chissà perché una donna arrabbiata è un'”arpia". Una “megera”, una “strega”, una “bisbetica", un'”isterica” chissà perché non “grida” o “urla”, ma piuttosto “strilla” o “sbraita”, e se risponde a chi la provoca è “petulante”, mentre l’uomo quando si adira è “per una causa giusta”, perché non si fa mettere sotto, perché “ha le palle”.

Cos’è questa diversa percezione dell’ira al maschile o al femminile se non la prosecuzione dello stereotipo secondo cui la donna deve essere in ogni situazione dolce, accomodante, indulgente, in una parola “sottomessa”?

Per questo le donne si arrabbiano in un modo diverso dagli uomini. Preferiscono interrompere il contatto oculare ed evitare il dialogo piuttosto che esprimere energicamente il proprio dissenso.

Le donne più degli uomini piangono di rabbia e si sentono colpevoli sia per la rabbia, sia per il fatto di non saper reagire adeguatamente. E in questa inadeguatezza c'è anche un leggero tratto di immoralità che Freud

ha indicato nell'”evitamento”, per cui, invece di esprimere direttamente la loro rabbia, le donne preferiscono ricorrere ad attacchi psicologici come la maldicenza o l’ostracismo sociale, e nello “spostamento” che consiste nello sfogare la propria rabbia su una persona diversa da quella che l'ha provocata e che non si ha il coraggio di affrontare.

Ma la differenza più grande si vede nella reazione dei due sessi alla rabbia suscitata dal tradimento o dall'abbandono. La reazione maschile è prevalentemente sul piano fisico con sopraffazioni e violenze che talvolta

neppure le mura di casa e le porte blindate riescono a contenere, mentre la reazione femminile tende a colpire sul piano economico e su quello affettivo con il ricatto dei figli.

Strategie diverse che indicano una diversa situazione di potere, la stessa che si registra fra poveri e ricchi, fra oppressi e oppressori. I maschi, i ricchi, i potenti dicono che l'ira è un'emozione infantile, un segno di debolezza, solo perché loro non hanno bisogno di arrabbiarsi, in quanto possono ottenere ciò che vogliono con mezzi diversi. Quanto poi al fatto che la rabbia sia massimamente proibita ai deboli e agli oppressi fa pensare che essa non sia affatto innocua.

Merleau-Ponty osserva che i borghesi non dicono mai “Noi”, ma sempre “Io” salvo quando sotto le loro case c'è una folla urlante. Allora, ma solo allora, imparano a dire “Noi”. L'ira, infatti, coinvolgendo l'emozione, è

sempre più convincente di qualsiasi discorso e, se espressa come dice Aristotele: “al momento giusto, nel modo giusto, con la persona giusta", consente talvolta di ottenere quel che si chiede e di rafforzare la propria autostima. Ma per questo ci vuole la “giusta misura”, proprio quella virtù che l'ira tende a mandare in frantumi.

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