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PLOTINO - Enneadi - Cecità

In questo passo, tratto dal I libro delle Enneadi, Plotino ha distillato in maniera magistrale il suo pensiero intorno alla Bellezza e alla possibilità da parte dell’anima umana di raggiungerne l’essenza durante il suo viaggio intra-mondano. Il capitolo da cui è tratto il passo di seguito riportato ha dunque come titolo Il Bello. Ma la Bellezza di cui parla il testo proposto, lungi dal poter essere ridotta ad una caratteristica interna ai corpi di cui si ha una esperienza sensoriale, deve piuttosto essere identificata con la comunione intellettuale  dell’Anima  umana  con  il  Mondo  Intelligibile  delle  Idee.  Per  giungere  a  questa  unione  – chiarisce Plotino – è necessario abbandonare: «la vista degli occhi [….] e riattivare quell’altra vista che tutti hanno, ma che in pochi usano». È questa la forma del paradosso scelta dal più celebre dei filosofi neoplatonici per indicarci la via da seguire allo scopo di arrivare alla visione del Bello. Per dirla con Eraclito, «cattivi testimoni sono per gli uomini occhi e orecchie se si ha anima che nella sua barbarie non li intende». Ciò che gli occhi vedono, dunque, non è altro che illusione, immagine sbiadita ed ombra di ciò che realmente esiste, ossia le Idee. Di contro, per vedere la Verità è necessario fare a meno dell’esercizio della vista; per conoscere il Bello è necessario chiudere gli occhi; per vedere ciò che più di tutti merita di essere visto è indispensabile, in una certa misura, il non-vedere.

Se, dunque, la conoscenza del Bello passa soprattutto dallo sguardo interiore che l’animo umano rivolge a se stesso, ecco che nel passo proposto il binomio visione-cecità subisce una risemantizzazione funzionale all’esposizione dell’idealismo plotiniano. Cieco non è solamente colui che non esercita l’uso della vista a causa di una menomazione ma, piuttosto, colui che, proprio perché  vede con gli occhi, non riesce a innalzare il suo animo verso la Verità.

 

[I, 6. 8] Ma qual è il modo? Quale il mezzo? Come vedere questa straordinaria Bellezza che, quasi volendo restare chiusa nei santuari e nei templi, evita di uscire all’esterno per non svelarsi al profano? E allora, almeno chi ne ha la capacità e sa lasciare fuori la vista degli occhi e distoglie lo sguardo dal luccichio dei corpi di prima, vada anch’egli e segua fin dentro questa Bellezza. In verità, chi vede il bello nei corpi non deve rincorrerlo, ma ormai, sapendo che è solo un’immagine, un’impronta e un’ombra, lo deve fuggire per dirigersi a ciò di cui è immagine. Chi infatti vi si gettasse sopra per volerlo stringere, quasi fosse una cosa reale, imiterebbe quell’uomo che, a quanto allude il mito, mi pare volesse afferrare la sua bella immagine riflessa nell’acqua e finì col cadere giù, scomparendo nella corrente. Una sorte non diversa toccherebbe all’uomo che, affascinato dai bei corpi, non riuscisse a liberarsene: anch’egli cadrebbe – ma questa volta con l’Anima! – nella notte fonda e impenetrabile dell’Intelligenza dove si troverà cieco di fronte all’Ade, lì come qui circondato dalle ombre. «Fuggiamo dunque verso l’amata patria!»: ecco l’invito più sincero. Ma che genere di fuga è mai questa e come si attua? Ce ne andremo alla maniera di Ulisse, quando – a detta del poeta – lasciò la maga Circe e Calipso, a mio giudizio, facendo intendere di non voler restare, per quanto non gli mancassero i piaceri degli occhi e si trovasse circondato da una profusione di bellezza sensibile. Il fatto è che la nostra patria è il luogo da cui siamo venuti, là dove è il Padre. E dunque. Quale viaggio è mai questo e quale fuga? Certo, non si può compiere a piedi, perché in ogni caso i piedi ci porterebbero da una terra all’altra. Neanche si devono attrezzare carrozze di cavalli o imbarcazioni: basta solamente distaccarsi da tutto e non guardare più, ma, per così dire, riattivare quell’altra vista che tutti hanno, ma che in pochi usano, e ricorrere ad essa.

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