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PLATONE - Timeo - Cecità

Celebre è il giudizio di Alfred North Whitehead secondo cui l’intera Storia della Filosofia sarebbe riducibile ad un insieme di glosse al pensiero di Platone. Eppure, al dì la del carattere generico e chiaramente provocatorio che una simile affermazione possiede, la parole del matematico britannico hanno comunque il pregio di aver collocato nella giusta luce il ruolo, per così dire, "generativo" che i Dialoghi platonici hanno avuto nella tradizione filosofica occidentale.

Tra i numerosi argomenti sviluppati in parte o del tutto dal Platonismo è possibile annoverare anche la riflessione sul binomio visione-cecità. Nel passo proposto di seguito, tratto da un dialogo tardo come il Timeo, il filosofo greco pone infatti l’accento sulla funzione capitale che il senso della vista ricopre nel percorso conoscitivo di ricerca della Verità. Mediante gli occhi – apprendiamo da Platone – l’uomo riesce concretamente a ritagliarsi un posto nel mondo del sensibile. Uno dei primi e più importanti attributi da consegnare alla vista è pertanto l’utilità strumentale da cui deriva la capacità stessa dell’uomo di orientarsi nello spazio e nel tempo. Eppure, l’importanza del senso della vista non si risolve nel suo carattere, per così dire, "operativo". Quello del Vedere, come apertamente dichiarato da Platone è soprattutto l’atto che rende possibile l’indagine intorno alla natura e alle sue leggi, nonché, in ultima istanza, l’esercizio stesso della filosofia e il raggiungimento del Sommo Bene. È infatti attraverso la visione materiale degli astri e dei loro movimenti nel cielo che l’uomo può controllare la parte irrazionale di sé, accordando i moti rapsodici del suo animo sulla base dell’immutabile armonia dei moti celesti.

  

[47a – c7] Ma sia sufficiente quanto è stato detto sulle concause degli occhi, che permettono loro di avere la facoltà che ora possiedono, occorre esporre dopo ciò la loro funzione essenziale e la loro utilità, ciò per cui la divinità ce li ha donati. La vista appunto, secondo me, è diventata per noi la causa della più grande utilità, perché nessuno degli attuali discorsi sull’universo avrebbe mai potuto essere pronunciato, se non avessimo visto gli astri, il sole e il cielo. Ma, adesso, la visione del giorno, della notte, dei mesi, dei periodi e degli anni, degli equinozi e dei solstizi ci ha procurato il numero, la nozione del tempo e l’indagine sulla natura dell’universo; e da queste cose abbiamo tratto l’esercizio della filosofia, rispetto alla quale nessun bene maggiore ci venne mai, né mai ci verrà dagli dei come dono elargito alla stirpe mortale.

Io dico appunto che questo degli occhi è il bene più grande; e tutti gli altri beni inferiori, perché dovremmo celebrarli, se chi non è filosofo e si lamentasse di esserne privo a causa della cecità, lo farebbe invano? Ma diciamo che la ragione e la finalità di questo bene siano le seguenti: che il dio ha trovato per noi e ci ha donato la vista perché, osservando i periodi dell’intelletto nel cielo, noi ce ne servissimo per comprendere i movimenti circolari del pensiero che è in noi, che, pur essendo dello stesso genere di quelli nel cielo, sono perturbati, mentre quelli sono imperturbabili, e perché, dopo averli appresi e aver preso parte alla correttezza dei ragionamenti secondo natura, imitando i movimenti assolutamente regolari della divinità, noi correggessimo i nostri movimenti erranti.

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