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TERESA SIMEONE – L’umanesimo ai tempi del coronavirus. Rileggendo «La peste» di Camus

In questo testo viene proposta la parte iniziale di un articolo tratto da una rivista culturale: esso offre molti spunti di riflessione sulle analogie tra la realtà dell’emergenza sanitaria e il valore profetico delle opere letterarie. Un interessante lavoro da svolgere in classe è quello di estrarre dal testo le domande culturali, i riferimenti attuali e le metafore che accompagnano la scoperta di un’epidemia. Inoltre si può lavorare sulla creazione di un glossario politico e di impegno civile sul contenuto dell’opera di Camus, anche proponendo alla classe uno o due brani significativi e suggerendone poi la lettura integrale. In questo caso, un lavoro interessante potrebbe essere quello di un confronto a distanza tra l’approccio narrativo di Camus e lo stile utilizzato da Manzoni nella cornice del romanzo storico.

«I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194... a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario: a prima vista, infatti, Orano è unà citta delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina». [1]

L’incipit di una delle più famose e inquietanti opere della letteratura mondiale di tutti i tempi ci immerge nell’ordinarietà di un luogo che è Orano ma potrebbe tranquillamente essere Codogno o Wuhan o Daegu.

Considerata una metafora di quella spaventosa epidemia che negli anni quaranta dilagò in Europa con il nome di nazionalsocialismo, oggi richiama invece un’interpretazione fedelmente letteraria di ciò che descrive, in modo per noi assolutamente imprevedibile, considerando che quando fu scritta, benché già ammonisse sul possibile rinascere del pericolo, non lo ritenesse reale nel suo aspetto biologico-sanitario.

E invece lo stiamo vivendo, in modo drammatico e paradossale, a più di settanta anni dall’uscita del libro.

Nel 2020 l’epidemia, che assume sempre più i contorni di un’emergenza pandemica, ritorna a ricordarci quanto siamo esposti a nuovi e invasivi patogeni e come la loro diffusione sia ancora in grado di modificare radicalmente rapporti, relazioni, vita sociale e culturale, economia e diritti: chi avrebbe mai immaginato che non una singola, limitata città, ma un’intera nazione e poi un continente e infine il mondo globale diventasse un enorme, impensabile lazzaretto? E anche in questa capacità lungimirante e visionaria che si leggono opere come La peste di Albert Camus.

«La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo.» [2] Inizia tutto da questo neutro, insignificante ma insolito rinvenimento. I topi diventano due, tre, poi dieci. Si trovano, sporchi di sangue, a centinaia in tutti gli stabili e le vie di Orano. La gente incomincia a essere inquieta ma poi, finalmente, la moria di topi si arresta. «La citta – scrive Camus – respirò.» [3] Per poco. Iniziarono a sentirsi male gli esseri umani: il primo fu Michel, portiere del condominio in cui era stato trovato il topo. I sintomi inizialmente non furono associati a una malattia in particolare. In seguito altre persone accusarono gli stessi malori e Rieux incominciò, da medico esperto, a chiedersi cosa avessero in comune e a cosa potessero ricondursi. Man mano che i numeri dei malati aumentavano e i sintomi si ripetevano – stato di astenia, gangli ingrossati e in suppurazione, febbre – lo scenario si faceva più minaccioso. «La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava di una vera epidemia.»[4]

Puoi leggere l’articolo completo all’URL

http://temi.repubblica.it/micromega-online/l-umanesimo-ai-tempi-del-coronavirus-rileggendo-la-peste-di-camus/

 

 

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