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TELMO PIEVANI - Imperfezione. Una storia naturale, cap. A conclusione: le leggi dell’imperfezione - Imperfezione

Telmo Pievani insegna Filosofia delle scienze biologiche presso l’Università di Padova. Come per il gruppo 1bis, si è deciso di fornire anche al gruppo 3 un brano tratto da uno degli ultimi lavori dello studioso, il saggio Imperfezione. Una storia naturale (Raffaello Cortina Editore, Milano - 2019). Si tratta, in questo caso, di un passaggio del capitolo conclusivo, nel quale Pievani, a proposito del rapporto tra tempo e imperfezione, rovescia l’impostazione aristotelica (come già aveva fatto Galilei nell’altro testo proposto agli studenti). Se la perfezione è da associare all’immobilità atemporale e l’imperfezione, invece, alla necessità di mutare nel tempo, la condizione migliore, indice di un superiore statuto ontologico, è la seconda (e non la prima!). “Dove c’è imperfezione” – scrive infatti Pievani – “c’è qualcosa che accade, un evento, un processo, un mutamento, una relazione. Dove c’è perfezione è già successo tutto. L’ingranaggio non fa gioco. Le alternative sono finite”.

Nel racconto “La creazione” di Dino Buzzati (1966), il Grande Progettista dopo aver partorito l’universo si lascia convincere dalla moltitudine dei suoi angeli ingegneri a creare anche la Terra, un pianeta speciale che possa ospitare ogni sorta di pianta e animale. Nel lungo processo di valutazione dei disegni di tutte le possibili e ammirevoli bizzarrie viventi, uno spiritello petulante si fa largo per attrarre l’attenzione dell’Onnipotente. Ha avuto un’idea impellente. Gli mostra la sagoma di una creatura “sconnessa, goffa e in certo modo indecisa, quasi che il disegnatore, al momento buono, si fosse sentito sfiduciato e stanco”. Ancorché sgraziato, questo essere sarà l’unico dotato di ragione - assicura l’avventato progettista - il solo che potrà adorare coscientemente il suo Dio. Il Creatore però non vuole seccatori sapientoni né intellettuali in giro per la Terra e congeda l’angelo. Ma lui insiste e quando a sera tutto il lavoro è compiuto, approfittando della stanchezza del Sommo, lo avvicina, ci riprova e alla fine lo convince per sfinimento. Anche gli dei talvolta si lasciano tentare dalla curiosità. “In tempo di creazione, poi, era anche lecito essere ottimisti”, e il Creatore appose la firma al “fatale progetto’.
Noi figli di un creatore distratto, l’evoluzione, in questo viaggio nell’imperfezione finiamo per non ricordare più nulla di perfetto che ci abbia preceduto. Di imperfezione in imperfezione, dì deviazione in deviazione eccoci qui, Homo sapiens potenti e sconsiderati. Ma se torniamo all’inizio, proprio all’inizio degli inizi, qualcosa di perfetto lo avevamo incontrato. Il vuoto. Quel vuoto quantistico pieno di tutto e del contrario di tutto, compiuto e perfetto in sé, ma senza tempo. Ecco, fu necessaria quell’asimmetria primordiale, quell’anomalia madre di tutte le imperfezioni, per dare l’abbrivio alla storia dell’universo. Una storia che non solo non ci prevedeva, ma ancor oggi appare del tutto indifferente alle nostre sorti. Se è così, allora forse fra tempo e imperfezione sussiste un legame.
Darwin l’aveva capito: dove c’è perfezione non c’è storia. Se il naturalista vuol capire come funziona l’evoluzione, deve cercare le imperfezioni, i tratti inutili e vestigiali, perché quelli sono la traccia di cambiamenti passati e promessa di cambiamenti futuri (Gould, 1985, 1989). Dove c’è imperfezione, c’è qualcosa che accade, un evento, un processo, un mutamento, una relazione. al contrario la perfezione è, per definizione, compiutezza atemporale. Dove c’è perfezione, è già successo tutto. L’ingranaggio non fa gioco. Le alternative sono finite. Non rimane più nulla da narrare.
E allora, se fosse proprio la nostra intrinseca imperfezione a farci percepire e vivere il senso del tempo? L’evoluzione è cambiamento, evento, accadimento contingente, esplorazione ramificata di possibilità, non svolgimento necessario in un tempo assoluto, come vorrebbe farci credere la metafora suadente del progresso. Nelle vicissitudini quotidiane della sopravvivenza tutti fummo immersi da sempre nel perenne alternarsi ritmico dei giorni e delle notti, delle stagioni, delle fasi lunari. Da qui il nostro essere emotivamente immersi in un tempo che pensiamo di poter quantificare e misurare in successione, perché il futuro è quel posto in cui un predatore potrebbe acquattarsi per mangiarci.
Secondo alcuni fisici, il tempo lineare, globale e ordinato potrebbe essere ima grande illusione prospettica dentro cui la nostra mente è avvinghiata, per ragioni evolutive che fanno si che il conto del tempo sia intimamente presente nella cronobiologia di ogni organismo e persino di ogni cellula (Rovelli, 2017). Il suo pulsare irreversibile dal passato al futuro ci pervade in quanto abitatori di un pianeta periferico in cui nulla è e tutto accade. Se l’evoluzione si nutre di imperfezioni e le produce, allora per sillogismo è proprio l’imperfezione a darci il senso locale del tempo, unitamente a quella fastidiosa e irreprimibíle sensazione dí caducità. L’imperfezione è l’origine dell’impermanenza. La perfezione, al contrario, è storia che ha fatto perdere le sue tracce.
I filosofi medievali lo avevano pensato, Darwin lo aveva visto nelle ali atrofizzate dei pinguini e nelle stravaganze dei cirripedi. La perfezione è paradossale. In quanto tale, infatti, essa non è perfettibile e solo un essere altrettanto se non più perfetto potrebbe apprezzarla. Per essere perfettibile, ossia per avere ulteriori possibilità di sviluppo e di completamento grazie a nuove caratteristiche, dovremmo ammettere che essa non sia poi cosi perfetta. Quindi la perfezione dipende dall’imperfezione. Possiamo coglierla cioè soltanto per via indiretta, tramite l’imperfezione appunto.
Qualche filosofo ardito si è spinto perciò a teorizzare che la vera perfezione fosse proprio l’essere imperfetti. Fatta eccezione, si intende, per gli dei irascibili spesso immaginati da noi umani, i quali tuttavia derogano spesso alla loro presunta onnipotenza e onniscienza comportandosi in modi assai poco irreprensibili.
Questa divinizzazione dell’imperfezione non convince, così come la sua edulcorazione per via psicologica e consulenziale. Le librerie sono colme di pubblicistica che elogia l’imperfezione. Le variazioni sul tema ritrito secondo cui “nessuno è perfetto” (ma è bell’a mamma soja, soprattutto in Italia) sono potenzialmente infinite. Non cercate una perfezione impossibile, ci consigliano, perché l’ansia da prestazione vi corroderà. Consolatevi e trasformate le vostre imperfezioni in risorse. L’imperfezione è alquanto naturale, d’accordo, ma non per questo essere imperfetti è positivo, giusto, e men che meno piacevole. Non possiamo negare che l’imperfezione sia anche sofferenza, rimpianto, anelito deluso, mortalità, spreco, vanità. Sui modi in cui convivere onorevolmente con la nostra “essenza imperfetta”, manchevole e bisognosa, e persino farne tesoro, è meglio essere di poche parole anche perché è difficile aggiungere qualcosa a quanto magistralmente ne scrisse Michel de Montaigne nei suoi insuperabili Saggi alla fine del Cinquecento.
Oggi come allora, possiamo fare esperienza e rivelazione quotidiana della nostra debole costituzione. Passeggiando alle undici del mattino di un giorno feriale qualsiasi in un centro città, quando gli studenti sono a scuola e gli adulti al lavoro, ti ritrovi improvvisamente catapultato nel paese dei vecchi. Circondato da anziani come anche tu tra un po’ sperabilmente sarai, non puoi non pensare all’allungamento e al rallentamento della vecchiaia umana, resi possibili dagli avanzamenti medici e sociali, che ci regalano più primavere e tramonti ma con tutto un carico di dolorose imperfezioni e debilitanti attese. I meccanismi protettivi ben oliati dalla selezione naturale non funzionano altrettanto bene dopo il superamento dell’età riproduttiva. Dilatando in tal modo l’invecchiamento stiamo quindi sfidando, nuovamente, l’evoluzione.

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