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TELMO PIEVANI - Imperfezione. Una storia naturale - Imperfezione

Telmo Pievani insegna Filosofia delle scienze biologiche presso l’Università di Padova. I testi proposti sono tratti da uno dei suoi ultimi lavori, il saggio Imperfezione. Una storia naturale (Raffaello Cortina Editore, Milano - 2019). Le riflessioni di Pievani offrono diversi contributi al tema della (presunta) perfezione del mondo naturale.
Come è emerso dai testi precedentemente considerati, l’argomento del disegno intelligente sostiene che le strutture naturali siano perfette poiché soddisfano i fini loro indicati dalla mente intelligente di Dio; premessa implicita di questo ragionamento è che gli enti del mondo non possano assolvere a certi fini senza una razionalità volontaria che li indirizzi. Già la teoria dell’evoluzione, osserva Pievani, aveva spezzato la premessa poiché, da Darwin in poi, non è più necessario postulare una volontà progettuale affinché gli organismi perseguano i loro scopi: le strutture naturali soddisfano determinati fini (si adattano all’ambiente e sono ad esso funzionali), ma ciò non deriva - ci ha insegnato lo scienziato inglese - dall’attività razionale di Dio. Se si assume l’evoluzionismo darwiniano, si deve quindi concludere che la natura non sia affatto perfetta poiché le sue strutture non raggiungono scopi intenzionalmente posti. Ma Pievani dice di più, sostenendo che le disposizioni della natura, pur funzionali in certi ambiti, falliscono inevitabilmente in altre direzioni; le “soluzioni” che la natura trova, in altre parole, sono sempre subottimali essendo il risultato non di progetti mirati e studiati, ma di espedienti casuali. “L’evoluzione – scrive il filosofo – non è il prodotto di un ingegnere, quanto piuttosto di un artigiano che si arrabatta con il materiale che ha a disposizione”, e ancora: “La selezione naturale non è onnipotente e non è il sostituto laico del grande progettista”.


L’impronta dell’inutilità
Charles Darwin litigò per tutta la vita con la perfezione per due ragioni molto rilevanti ancor oggi. La prima era che i testi di teologia naturale intrisi di devozione su cui si era formato a Cambridge, come quello di William Paley del 1802, traboccavano di ispirate e commoventi descrizioni dei deliziosi e perfetti “adattamenti” (termine finalistico che precede la teoria evoluzionistica e definiva una forma mirabilmente “atta a” svolgere una funzione) degli organismi viventi. Adattamenti meravigliosi e ottimali che dimostravano, sulla base dell’argomento del disegno, l’operato di una divinità creatrice, giacché simili capolavori naturali di complessità e organizzazione non potevano esser stati prodotti senza una finalità, senza un progetto intenzionale.
Come può la rana pescatrice aver evoluto quel finto pesciolino (perfetto!) che gli balla davanti alla bocca per attirare le prede e che in realtà è il lembo terminale penzolante e modificato di una spina della pinna dorsale? Come è possibile che il medesimo adattamento, un finto pesciolino da richiamo perfettamente identico a certi pesci su cui fa crescere le sue larve (stesse pinne, stessa coda, stessi ondeggiamenti), si sia evoluto nel mollusco bivalve Lampsilis a partire da un lembo della sua borsa di incubazione? Come è possibile che mammiferi marsupiali e mammiferi placentati, due modi alternativi di essere mammiferi, di fronte a sfide ambientali simili evolvano strutture e comportamenti analoghi in parti diverse del mondo? Il sonar è stato inventato dai pipistrelli, ma anche da alcuni uccelli sudamericani, i guaciari. Domande tendenziose (nel senso che presuppongono una qualche tendenza intrinseca alla perfezione).
In un’ottica creazionista infatti è del tutto prevedibile che gli organismi siano perfettamente equipaggiati e ben inseriti nell’ambiente insieme al quale sono stati creati. Anche L’origine delle specie in effetti trabocca di descrizioni di “finissimi adattamenti” e di co-adattamenti fra gli organismi. Il mondo naturale ne è pieno, poiché l’evoluzione è in grado di agire sulle più minute “sfumature di differenze” nelle strutture e nei comportamenti: è come “l’impronta di un’arte” analoga, ma di gran lunga superiore, a quella degli allevatori. Parimenti, oggi ammiriamo la bellezza e la funzionalità della struttura biochimica dell’emoglobina, come delle conchiglie a spirale di nautili e ammoniti. Darwin però sta ben attento a non confondere i suoi peana dell’adattamento con quelli dei teologi naturali. In due modi.
Da un lato, si premura di mostrare con dovizia di esempi come quegli apparenti gioielli di biomeccanica e fisiologia (per esempio la mirabile fattura dell’occhio, il mimetismo sorprendente di un insetto, le ariose trabecole delle ossa degli uccelli) possano invece evolvere gradatamente attraverso il lento e cieco scrutinio della selezione naturale sulla variazione casuale degli individui, e dall’altro precisa in più occasioni nella sua opera come la norma in natura, a ben vedere, sia l’imperfezione, e niente affatto la perfezione. Egli intuì che il nocciolo della controversia fra evoluzionismo e fissismo potesse giocarsi proprio sulle “stranezze” della natura, cioè sul tema cruciale dell’imperfezione.
Così nacque la storia naturale delle imperfezioni. Tra le prove empiriche più importanti dell’evoluzione, per Darwin, c’erano quelle morfologiche e strutturali. Era già noto allora che gli esseri viventi presentano “omologie” di struttura molto marcate (per esempio negli arti di tutti i vertebrati), con superficiali modificazioni successive, come se l’evoluzione ricorresse a un insieme limitato di schemi morfologici e di piani corporei fondamentali e apportasse poi soltanto variazioni sugli stessi temi. La spiegazione per tutto ciò non poteva che essere per Darwin genealogica, cioè la discendenza comune con modificazioni: le strutture omologhe sono la prova di una provenienza di tutti quegli animali da forme ancestrali comuni, sulle quali ha poi agito la selezione naturale al variare delle condizioni ambientali contingenti.
Dunque l’evoluzione darwiniana nasce da una dialettica tra “unità di tipo” (cioè le strutture morfologiche ereditate) e “condizioni di esistenza” (cioè le pressioni selettive esterne). In altre parole: tra inerzie e vincoli storici, da una parte, e situazioni ambientali contingenti, dall’altra. Già si capisce che non ci sono proprio le premesse per una perfezione ingegneristica. Gli arti superiori di un essere umano, di una talpa, di un cavallo, di un delfino e di un pipistrello sono utilizzati oggi per funzioni del tutto diverse (afferrare, scavare, correre, nuotare, volare), ma presentano lo stesso modello di base, cioè le stesse ossa sono nelle stesse posizioni reciproche: non sono perfette per i loro compiti, ma in compenso sono il segno certo di una discendenza comune.
La selezione naturale non è onnipotente e non è il sostituto laico del grande progettista. Deve scendere a compromessi di volta in volta con il materiale a disposizione, che è pieno di vincoli interni e di limiti fisici. La selezione può migliorare gli organismi solo rispetto a condizioni organiche e inorganiche di vita contingenti, non ambire a un’impraticabile perfezione. L’adattamento diventa quindi un concetto relativo e il passato lascia i suoi segni sotto forma di imperfezioni e stranezze. Lo testimoniano, per Darwin, anche i numerosi tratti rudimentali o vestigiali che persistono come inerzie del tutto inutili negli animali. Se le condizioni ambientali cambiano, organi un tempo utili possono diventare ingombranti, ma non al punto da essere rimossi. E restano lì.
Occhi atrofizzati (che farsene di occhi fragili e costosi se ti sei rifugiato a vivere in una grotta buia?), ali dismesse in centinaia di specie di uccelli e insetti (che farsene di ali fragili e costose se, come in Nuova Zelanda prima dell’arrivo degli umani, non hai predatori e trovi il cibo a terra?), mammelle maschili, gli abbozzi di arti posteriori e di pelvi nel boa, i denti nei feti di balena o le piccole ossa del bacino che rimangono negli adulti di balena, i petali rudimentali, e così via; sono tutti segni della storia, retaggi di parentele lontane, strutture in disuso che l’evoluzione tollera per un po’ oppure riutilizza alla bisogna come nel caso degli occhi sottopelle di alcune talpe, delle ali dei pinguini usate come pinne o delle ali di insetto riutilizzate come bilancieri. La natura, scrive Darwin in un passo bellissimo dell’Origine delle specie, reca indelebile “la pura impronta dell’inutilità”. L’impronta dei caratteri imperfetti, “estremamente comuni, o persino generali, in tutta la natura”.

Uccidiamo il senno di poi
Tutto lascia pensare che il grado di contingenza della storia cosmica e planetaria che ci riguarda sia stato sempre abbastanza alto. Dentro l’imperfetta e dunque massimamente affascinante scena cosmica, il nostro piccolo quartiere non ha proprio nulla di speciale. Siamo a 27.000 anni luce dal centro di una normale galassia a spirale, la Via Lattea, in mezzo a uno dei suoi bracci periferici, lo sperone di Orione. Con i suoi almeno 100 miliardi di stelle, la nostra galassia fa parte di un ammasso modesto di 50 galassie noto come Gruppo Locale, a sua volta uno dei cento che compongono il super-ammasso della Vergine, ed entrerà in collisione con Ia galassia di Andromeda tra circa 400 milioni di anni, La nostra banale regione è però sufficientemente vecchia (10 miliardi di anni) perché molte stelle di prima generazione hanno avuto il tempo di esaurirsi e di esplodere in supernove diffondendo un ricco menù di elementi pesanti nel circondario, il che è quello che conta per noi. Una contingenza locale favorevole, figlia della sequenza precedente di punti critici.
Dalle nostre parti la polvere di stelle, cioè il minestrone di molecole a base di elementi pesanti, comprendeva anche un ampio assortimento di composti del carbonio. Tra le molecole organiche in circolazione c’erano persino amminoacidi, basi azotate e altre aggregazioni interessanti sotto forma di catene lineari di molecole. Fatta eccezione per l’idrogeno, tutta la materia di cui sono fatti i nostri corpi viene da quelle fabbriche chimiche interstellari. Intorno a 4,8 miliardi di anni fa, pressappoco l’epoca in cui lo spazio-tempo iniziò nuovamente ad accelerare la sua espansione a causa dell’effetto contro-gravitazionale dell’energia oscura, una fredda e buia nube interstellare alla periferia della Via Lattea iniziò a collassare. Come Immanuel Kant e altri avevano ipotizzato, l’addensamento di materia nella nebulosa fece nascere il Sole con tutta la coreografia di pianeti che, muovendosi disciplinatamente sullo stesso piano e nello stesso verso, gli girano attorno.
L’universo che ci circonda è molto freddo, mediamente tre gradi sopra lo zero assoluto (cioè meno 270 gradi Celsius). Bisogna mettere insieme una combinazione davvero fortunata di condizioni fisiche per mantenere da tre miliardi di anni una temperatura confortevole sulla superficie di una roccia vagante in questo cosmo gelido. Il caso inoltre ha voluto che il Sole ruoti alla velocità giusta, che il suo campo magnetico non sia troppo forte e che nel suo nucleo, alla nascita, vi fosse una quantità di combustibile (idrogeno) sufficiente per circa dieci miliardi di anni. È proprio la stella giusta al posto giusto, dentro la nube giusta.
Sicuri? Questa idea di “giustezza”, cioè avere né troppo né troppo poco di tutto quanto è necessario, può trarre in inganno la nostra mente. Si tratta infatti di un giudizio a posteriori, perché adesso noi siamo qui, sulla Terra, ad ammirare colmi di stupore il cielo stellato e a ricostruire per via scientifica la storia dell’universo. Ma il senno di poi è il peggior nemico per la comprensione dell’evoluzione, perché tende a sottostimare tutti gli innumerevoli esiti alternativi che sarebbero stati possibili a partire dalle stesse condizioni. Il senno di poi fa apparire necessario e compiuto, cioè perfetto, ciò che non lo è per nulla. Ci induce persino a rovesciare la realtà.
Guardando a ritroso una storia contingente, la nostra mente infatti è portata a ragionare nei termini fatalistici del destino e del disegno, selezionando alcuni eventi e non altri. Come se non ci fosse mai stata davvero scelta. Come se tutto fosse già stato scritto nelle carte distribuite all’inizio. Come se la necessità avesse tessuto da sempre la sua tela. Ma l’inevitabilità del risultato è un abbaglio consolatorio del senno di poi, che ci fa inanellare retrospettivamente le cause e gli effetti, il prima e il poi, le intenzioni e le conseguenze.
Il problema è che la nostra mente ci porta proprio a ragionare nel modo seguente: quante coincidenze, cosmiche e personali, si sono dovute realizzare affinché io sia qui in questo momento; ma allora non può essere il frutto del caso, era destino che accadesse. Molti studi sul nostro cervello confermano questa forte attitudine psicologica di Homo sapiens verso animismo e teleologia, cioè il pensare per finalità, il preferire narrazioni in cui agenti intenzionali esibiscono i loro scopi e cercano di raggiungerli. Di conseguenza ci piace, e ci viene più facile, pensare che l’evoluzione cosmica e biologica vada dall’imperfetto al perfetto, dal semplice al complesso, dall’inorganico alla materia che pensa.
Così fantasticando, rimuoviamo dalla nostra consapevolezza il potere dei punti critici, di quelle sottili imperfezioni e rotture di simmetria da cui dipende il corso degli eventi successivi. Se invece facessimo lo sforzo di comprendere l’evoluzione immedesimandoci nelle possibilità che c’erano in un dato momento storico - e poi guardando sia avanti sia indietro, ma sempre a partire dalle potenzialità di quel momento - allora si aprirebbero ai nostri occhi molti contro-futuri (cioè i contro-presenti dell’oggi) di cui era gravido il passato nei suoi punti critici e nelle sue imperfezioni. Non vedremmo soltanto l’unico presente che si è realizzato, per poi giustificarlo come necessario, predeterminato, “naturale”, persino inevitabile, alla luce del passato, ma apprezzeremmo la bellezza di tutte le storie possibili che non si sono realizzate. I presenti possibili ma irrealizzati sono contingenti rispetto a (cioè casualmente dipendenti da) eventi del passato che non si sono verificati. Sono quelli che i filosofi chiamano controfattuali, versioni alternative e plausibili del passato in cui un cambiamento nelle biforcazioni critiche ha condotto a un esito diverso da quello che si è realizzato nella realtà.
Il senno di poi è un veleno. Liberiamocene, e anche il futuro ci sembrerà più aperto.

Il possibile è più grande del reale
Darwin ripeteva sempre che il detto “vox populi vox dei” non si applica alla scienza, che spesso è controintuitiva. Soprattutto quando ci nega concetti consolatori come quello di perfezione. Noi osserviamo la biomeccanica raffinata di un occhio e subito pensiamo al telescopio, cioè a un artefatto progettato (peraltro non perfetto, ma perfettibile). Ci viene naturale, ma è sbagliato. Paradossi dell’evoluzione, che ci manda fuori strada quando vogliamo comprenderla.
L’imperfezione sembra popolare (nessuno è perfetto e via banalizzando), ma in realtà è controintuitiva, fastidiosa. Eppure rivelatrice di come sono andate le cose. Prendiamo il panda gigante, l’emblema coccoloso delle specie in via di estinzione o fortemente minacciate. L’ingordigia umana che ha distrutto gran parte degli ecosistemi in cui vive interagisce negativamente, come la fine della glaciazione per l’alce irlandese con una sua imperfezione congenita. Il panda è un orso, cioè un mammifero carnivoro, ma si ciba di bambù da mane a sera. Come è possibile? Obbligare il vostro gatto dli casa a una dieta vegana potrebbe non essere una buona idea.
Il panda è potenzialmente onnivoro come altri orsi (nei giardini zoologici in certe occasioni mangia miele, uova, frutta e tuberi), ma in natura è un vegetariano quasi perfetto da due milioni di anni, dato che i germogli di bambù costituiscono il 99% della sua dieta. Il suo sistema digerente tuttavia è ancora quello di un carnivoro e solo grazie alla speciale microfauna di batteri presenti nel suo intestino riesce a digerire la cellulosa. Anche i denti restano quelli dli un orso. Come tutti gli erbivori ma senza il loro stomaco, deve mangiare in continuazione e in gran quantità per avere energia sufficiente, poiché ovviamente il bambù è molto meno nutriente di una bistecca di antilope. Deve inoltre condurre una vita piuttosto sedentaria, muoversi piano e risparmiare le forze. Una noia mortale.
Le stesso accade al koala, divoratore compulsivo di foglie di eucalipto (ma solo di certe varietà, di cui degrada le tossine), che ha rallentato i bioritmi fino a dormire 18 ore al giorno. Il suo marsupio ha l’apertura rivolta verso il basso — una pessima idea per chi vive arrampicato sugli alberi e rischia di far cadere il piccolo — ma pare che lo avesse cosi il suo antenato marsupiale scavatore e il koala non lo ha ancora cambiato. Lo so, state pensando che allora se la sono un po’ cercata anche il panda e il koala, e che forse non è tutta colpa nostra se rischiano di estinguersi (noi Homo sapiens siamo perfetti nello scaricare le responsabilità). In realtà il panda e il koala illustrano benissimo la nostra quarta legge dell’imperfezione: hanno cambiato abitudini alimentari e si sono aggiustati come hanno potuto; sono stranezze che funzionano. Sono due fra gli innumerevoli esempi di quanto nell’evoluzione conti il sapersi arrangiare.
Persino in certi dettagli anatomici si notano gli aggiustamenti di fortuna. Con una zampa da orso infatti è difficile per il panda afferrare il bambù. La selezione naturale ha favorito dunque gli individui in grado di avere una maggiore prensilità: con il tempo il panda ha sviluppato un “sesto dito” opponibile a partire da un ossicino del polso, il sesamoide radiale. Non è un vero pollice ex novo, è un riutilizzo opportunista. Una struttura nata per assolvere a certe funzioni viene poi cooptata per svolgerne altre, completamente diverse, al mutare delle circostanze ambientali e, in questo caso, della dieta. Il panda è figlio del bricolage evolutivo (Gould, 1980, I993).
Ma non è finita. L’osso corrispondente del piede del panda, il sesamoide della tibia, si è ingrandito pure quello, per simmetria dello sviluppo tra arti superiori e arti inferiori, senza alcuna sostanziale utilità e forse con qualche fastidio per un plantigrado quale il panda. L’imperfezione cosi ci svela anche le correlazioni genetiche dli sviluppo che rendono i nostri corpi un tutto coordinato. Se un cambiamento adattativo agisce in un punto del sistema, dobbiamo aspettarci effetti collaterali altrove.
Darwin fu talmente persuaso da questa seconda risposta al problema della perfezione che negli ultimi anni di vita ne fece una sorta di principio generale. In un libro delizioso sulle orchidee del I862 scrive: “In tutta la natura quasi ogni parte di ciascun essere vivente è probabilmente servita, con poche modifiche, ad altri scopi e ha funzionato come parte della macchina vivente di molte e diverse forme antiche”. Al riguardo, la sua parola preferita, in inglese, era contrivances: congegni, artifizi, ritrovati ingegnosi, apparati. Il sapore di fondo è quello dell’improvvisazione. La natura non fa progetti, trova espedienti. Di slittamenti funzionali nell’evoluzione degli animali marini Darwin discusse a lungo anche con l’amico Anton Dohrn, fondatore nel 1872 della Stazione Zoologica di Napoli.
Possiamo afferrare lo stesso concetto generalizzandolo. Ricordate la spugna ideale di prima? Gli evoluzionisti hanno inventato un concetto affascinante: il “morfospazio”.
Per una certa forma corporea (essere un crostaceo, essere un insetto, e così via) o per un certo carattere, per esempio la forma delle conchiglie delle chiocciole terrestri, si può costruire matematicamente uno spazio immaginario che contenga tutte le combinazioni di forme possibili. In pratica è lo spazio complessivo che l’evoluzione può esplorare, rappresentato su assi cartesiani attraverso parametri quantitativi. Poi si confronta questo morfospazio ideale con la realtà, cioè con le forme che quel carattere o quel piano corporeo assume e ha assunto in tutte le specie effettivamente esistenti ed esistite. Si scopre così un fatto interessante: quasi sempre l’evoluzione ha esplorato soltanto un piccolo sottoinsieme del possibile. Le soluzioni preferite di solito si concentrano in una o in poche aree ristrette del morfospazio. Come mai?
La prima risposta che ci viene in mente è che quelle aree siano le preferibili perché lì si concentrano le forme ottimali, cioè gli adattamenti migliori, i picchi raggiunti gradualmente dalla selezione naturale (Dennett, 1995). In certi casi è così, ma raramente. Talvolta le specie se la sono cavata in regioni non eccelse, ma accettabili. Vi sono poi intere regioni del morfospazio che avrebbero garantito buone chance di sopravvivenza a chi le avesse esplorate, ma non furono mai raggiunte da nessuna specie. Possiamo allora ipotizzare che nessun animale abbia mai adottato quelle soluzioni a causa di vincoli fisici, strutturali o di sviluppo preesistenti che ne precludevano l’accesso. Oppure dobbiamo accettare l’idea che la contingenza storica non abbia finora mai fatto arrivare nessuno da quelle parti, per caso. La mutazione genetica giusta, per esempio, potrebbe non essere mai uscita alla roulette. Comunque sia, alternative potenziali, altrettanto imperfettamente funzionanti, ci sono sempre state e sempre ci saranno.
“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”, fece dire William Shakespeare ad Amleto. C’erano più cose in cielo e in terra di quelle che l’evoluzione abbia mai sognato. Il possibile è più vasto del reale. E la natura più grande di tutte le nostre teorie per comprenderla.

  • PATHS - Testo 10 - Imperfezione - Caldiroli.pdf  Scarica
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