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STEFAN ZWEIG - L’impazienza del cuore - Luce

Nel buio i pensieri creano mostri, paure angosce. Tutto ciò svanisce col nascere del giorno: la luce mattutina mostra il mondo che va avanti, il tran tran della vita che riprende e che annienta – con la sua tranquillizzante banalità – le inquietudini personali.

Quanto più lavoravo di immaginazione, tanto più diventavo preda di idee assurde. Cento volte più facile mi sembrava in quel momento premere rapidamente con l’indice il grilletto della rivoltella che resistere al tormento infernale dei giorni a venire, all’attesa impotente, al rendermi conto se i miei compagni fossero già informati della cosa, e se già dietro le mie spalle si cominciasse a ridere e a mormorare. Mi conoscevo molto bene e sapevo che non avrei avuto la forza di resistere agli scherni e alle critiche. Ancora oggi non so come arrivai a casa. Mi ricordo solo che il primo gesto fu di aprire l’armadio dove si trovava la bottiglia di liquore per le mie visite e di tracannarne due, tre mezzi bicchieri, per liberarmi dall’orrendo senso di nausea. Poi mi gettai sul letto, vestito com’ero, e cercai di riflettere. Ma come i fiori crescono più in fretta in una serra calda, così accadde per le mie pazze immaginazioni nel buio. Germogliavano come fantastiche liane da un terreno putrido, soffocavano il respiro e con la rapidità dei sogni si formavano e s’inseguivano assurde allucinazioni nel mio cervello sovreccitato. Eccomi rovinato per tutta la vita, pensavo, scansato dalla società, deriso dai compagni, zimbello di tutto il paese. Mai più avrei potuto lasciare la camera, mai più mostrarmi in strada, per paura d’incontrare qualcuno che fosse informato del mio delitto: in quella prima notte di eccitazione la mia sciocchezza mi sembrava un delitto, e io mi consideravo perseguitato e colpito dal pubblico ludibrio.

Quando finalmente mi addormentai, si trattò di un sonno assai leggero, sotto il quale la mia paura continuava a lavorare febbrilmente. Appena riapro gli occhi, vedo davanti a me il viso infantile crucciato, le labbra tremanti, le mani che si aggrappano al tavolo, sento il rumore delle stampelle che cadono, di cui solo adesso capisco la natura, e mi sovrasta lo stupido terrore che a un tratto la porta si apra e, giacca nera, bianchi risvolti, occhiali d’oro, avanzi fino al mio letto con la sua barbetta a punta, rigida e accurata, il padre. Per lo spavento mi alzo. E mentre mi guardo allo specchio col viso umido di sudore, mi vien voglia di dare un pugno sulla faccia di quel cretino che sta là a guardarmi.

Ma per fortuna è ormai giorno, si sentono dei passi nel corridoio, sul lastrico il rumore dei carri. E alla luce del giorno tutto sembra più chiaro che in quella orribile oscurità creatrice di fantasmi. Forse, penso tra me, non è poi così terribile. Forse nessuno se n’è accorto. Lei sì, lei non lo dimenticherà mai, non mi perdonerà mai, la povera pallida ammalata. All’improvviso, un pensiero pietoso mi balena in mente. Mi pettino in fretta, mi metto la divisa e passo di corsa davanti al mio stupito attendente, che mi grida dietro nel suo povero tedesco ruteno: «Signor tenente, signor tenente, il caffè è pronto…».

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