Attendere prego...
PLATONE – Alcibiade secondo. Sulla preghiera - Dono

In questo brano, tratto dal dialogo platonico Alcibiade Secondo o Minore, Socrate, rivolgendosi ad Alcibiade che si sta dirigendo al tempio per compiere un sacrificio agli dei in cambio di doni, lo mette in guardia dall’insidia che si cela nella sua richiesta. I doni desiderati infatti possono tramutarsi in futuro in disgrazie e sciagure. Agli dei infatti, dice Socrate, non importano i doni offerti loro dagli uomini, nel decidere a chi offrire fortuna o a chi invece riservare cattiva sorte. “Non credo, infatti”, afferma Socrate che “gli dèi siano tali che si possano corrompere mediante doni come un cattivo usuraio”. Ciò che invece è da tenere in massimo conto sono la giustizia e la temperanza, sia nei confronti degli dei sia verso gli uomini. “Temperanti e giusti non sono altri, se non coloro che sanno che cosa si deve fare e dire nei confronti degli dèi e degli uomini”. L’invito che infine Socrate rivolge ad Alcibiade è quello rimandare la sua preghiera al tempio, e di aspettare il momento in cui abbia imparato come comportarsi con gli dei e con gli uomini.

[Mali che derivano da beni cercati o accettati in modo dissennato] 141c- 143a

Socrate - Vedi, allora, come non sia sicuro da pericoli né accettare in modo sconsiderato cose che vengono donate, né chiederle con preghiere, se si dovessero subire dei danni per queste, o addirittura se si dovesse perdere la vita. e potremmo parlare di molti uomini che, per aver bramato la tirannide ed essersi molto impegnati per ottenerla, convinti di fare il proprio bene, persero poi la vita per le insidie cui sono stati esposti dalla tirannide. Ma credo che non ti siano sconosciuti alcuni fatti avvenuti «ieri e ieri l’altro», quando Archelao, tiranno della Macedonia, venne ucciso dal suo amato, che bramava la tirannide non meno di quanto Archelao bramasse i suoi favori, e lo uccise per diventare insieme tiranno e uomo felice. Tuttavia, dopo aver tenuto il potere della tirannia per tre o quattro giorni, pure lui fu vittima di un complotto, e fu ucciso da alcuni altri. E vedi anche quanti dei nostri cittadini – perché queste cose non le abbiamo sentite dire da altri, ma noi stessi siamo testimoni diretti –, che bramavano di ottenere la carica di generale e vi erano riusciti, sono ancor oggi banditi da questa città, o hanno perso addirittura la vita. Invece, coloro per i quali sembra sia andata meglio, sono passati attraverso molti pericoli e paure, non solo nelle campagne militari, ma anche dopo esser tornati in patria, vennero assediati dai sicofanti, non meno che dai nemici in guerra, al punto che alcuni di loro avrebbero desiderato non esser mai stati comandanti, piuttosto che esserlo stati. Se, però, i pericoli e le fatiche avessero portato dei vantaggi, ci sarebbe stata una qualche ragione, invece avviene per lo più il contrario. Troverai, poi, che anche per quanto riguarda i figli succedono le medesime cose. Ci sono alcuni che, dopo aver pregato per averne e averli avuti, sono piombati nelle peggiori sventure e sofferenze. Alcuni, infatti, in quanto i loro figli furono cattivi fino alla fine, hanno trascorso tutta la vita nelle sofferenze; altri, invece, che ebbero buoni figli, subirono tuttavia delle disgrazie, e così li persero. Anche questi, sono caduti in sventure non minori rispetto a quelle dei primi, tanto che avrebbero desiderato che non fossero nati, piuttosto che fossero nati. Ma, anche se questi e molti altri esempi simili sono assai evidenti, capita di rado di trovare uno che o rifiuti questi doni che gli vengono offerti, o che, potendo riceverli mediante la preghiera, si trattenga dal chiederli. I più non rifiuterebbero né la tirannide, nel caso venisse loro offerta, né la carica di generale, né molte altre cariche, le quali, una volta ottenute, recano danni piuttosto che giovamento; anzi, pregherebbero di averle, qualora non le avessero. Però, dopo poco tempo, talvolta cantano la palinodia, ritrattando tutto quello che prima avevano pregato di avere. Pertanto, mi domando se non sia veramente a torto che gli uomini «incolpino» gli dèi, dicendo che sono l’origine dei propri mali, mentre sono essi stessi che, «con le loro scelleratezze» o stoltezze, come si voglia dire, «si procurano dolori oltre la loro sorte». Si dà il caso, Alcibiade, che fosse saggio quel poeta che, come mi pare, avendo degli amici dissennati, nel vederli fare e chiedere con preghiere cose che per loro non erano il meglio, come invece a loro sembrava, compose per tutti costoro una preghiera, che dice all’incirca così: Zeus re, dacci i beni, sia che li chiediamo nella preghiera, sia che non li chiediamo ma allontana i mali, anche se li chiediamo nella preghiera. Mi sembra che il poeta dica bene e in modo sicuro. Tu, però, se hai obiezioni, non devi tacere.

[…]

149e 151b

Socrate - […] troverai anche in Omero altri esempi simili a questi. Egli dice, infatti, che i troiani, nel preparare l’accampamento, «facevano ecatombi perfette agli immortali», e che i venti portavano dalla pianura in cielo l’odore delle vittime, «dolce, ma gli dèi beati non se le divisero né le vollero». Essi, infatti, «avevano molto in odio la sacra Ilio e Priamo e il suo popolo dalla forte lancia». E così, per i troiani non era di nessun vantaggio fare sacrifici e offerte, in quanto erano invisi agli dèi. Non credo, infatti, che gli dèi siano tali che si possano corrompere mediante doni come un cattivo usuraio. Però anche noi faremmo un discorso assurdo, pensando di essere superiori agli spartani in questo modo. Sarebbe, infatti, terribile che gli dèi guardassero ai nostri doni e ai sacrifici, ma non all’anima, per vedere se uno sia pio e giusto. Penso, invece, che guardino a questo ben di più che a quelle cerimonie pompose e ai sacrifici, che ogni anno privati e città possono offrire senza difficoltà, anche se hanno commesso molte colpe verso degli dèi e verso degli uomini. Invece, poiché gli dèi non si lasciano corrompere dai doni, disprezzano tutte queste cose, come affermano il dio e il profeta degli dèi. Perciò, si dà il caso che presso gli dèi e presso gli uomini che hanno senno, siano onorate soprattutto la giustizia e la temperanza. Temperanti e giusti non sono altri, se non coloro che sanno che cosa si deve fare e dire nei confronti degli dèi e degli uomini. Però, mi piacerebbe sapere che cosa pensi tu su queste cose.

Alcibiade - Ma, Socrate, non penso niente di diverso da te e dal dio. E non sarebbe ragionevole che dessi un voto contrario.

Socrate - Ma non ti ricordi di aver detto di trovarti in grave difficoltà per il pericolo di chiedere nella preghiera dei mali senza rendertene conto, pensando che siano invece beni?

Alcibiade - Io, sì.

Socrate - Vedi, dunque, che per te non è una cosa sicura andare a pregare il dio, perché non ti succeda che, sentendoti dire cose blasfeme, il dio rifiuti questo tuo sacrificio, e ti succeda di ricevere qualcosa di diverso. Perciò, mi pare che la cosa migliore sia che tu stia tranquillo. Non penso, infatti, che tu, a causa della esaltazione della tua anima – e questa mi pare proprio la miglior denominazione della insensatezza – voglia usare la preghiera degli spartani. Perciò, è necessario che tu attenda, finché abbia imparato come bisogna comportarsi con gli dèi e con gli uomini.

Alcibiade - Quando verrà questo momento, Socrate, chi sarà colui che me lo insegnerà? penso che sarei assai felice di sapere chi sia questo uomo.

Socrate - Questo è colui che si prende cura di te. Mi sembra, però, che, come Omero dice che Atena tolse la nebbia dagli occhi di Diomede, «perché potesse distinguere bene un dio da un uomo», così anche a te bisogna in primo luogo che venga tolta la nebbia dall’anima, che si dà il caso che ora sia in essa, per poi presentarti la via per la quale potrai conoscere il bene e il male. Al momento, infatti, non mi pare che tu sia capace di farlo.

Alcibiade - Mi tolga pure la nebbia o altro, se vuole, perché io sono pronto a non sottrarmi a nessuno dei suoi ordini, chiunque sia questo uomo, se sono in grado di diventare migliore.

Socrate - Ma anche lui ha per te una straordinaria sollecitudine.

Alcibiade - Pertanto, fino a quel momento credo che la cosa migliore sia rimandare anche il sacrificio.

Socrate - Mi sembra che tu dica giustamente. Infatti, è più sicuro rimandare che esporsi a un pericolo tanto grave.

Alcibiade - Ma come, Socrate? Allora, questa corona, in quanto mi sembra che tu mi abbia dato buoni consigli, la metterò sul tuo capo. Agli dèi, poi, offriremo e le corone e tutte le altre offerte che sono prescritte per loro, quando vedrò arrivare quel giorno. E arriverà fra non molto, se gli dèi lo vorranno.

Socrate - Accetto anche questo, e sarei felice di accettare qualunque altra cosa che mi venisse offerta da te. E come Creonte, in Euripide, nel vedere Tiresia con le corone e dopo aver saputo che le aveva ottenute per la propria arte, come primizie del bottino, dice: «prendo come augurio le tue corone vittoriose, perché siamo nella tempesta, come tu sai», così anch’io considero un presagio questo tuo onore. Mi sembra di trovarmi in una tempesta non inferiore rispetto a quella di Creonte, e anch’io desidererei riuscire vincitore sui tuoi amanti.

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