Attendere prego...
MARCEL MAUSS – Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche - Dono

Il Saggio sul dono del sociologo francese Marcel Mauss è probabilmente uno dei testi più influenti scritti sul tema del dono. In questa prospettiva il dono è privato del senso di gratuità e gesto incondizionato ravvisato da altri studiosi, per assurgere invece al ruolo di “fenomeno sociale totale”, cioè di vincolo sociale e soprattutto economico che regola gli scambi e le relazioni tra i gruppi e le persone, mantenendo così l’ordine sociale. Attraverso un’analisi molto dettagliata degli usi e dei costumi di alcune popolazioni native del Nord America e del Pacifico, Mauss individua tre obblighi fondamentali legati al concetto di dono: quello di dare, quello di ricevere e non meno importante quello di ricambiare. Esemplificativo del dono come legame e vincolo è l’usanza del potlac (analizzata nel brano qui proposto), in cui il donare diventa quasi una gara tra due donatori.

[…] Infine, per ciò che concerne il nostro studio, cioè quello dei tre temi del dono – obbligo di dare, obbligo di ricevere, obbligo di ricambiare – queste quattro forme del potlàc sono relativamente identiche.

DARE, RICEVERE, RICAMBIARE.

L’obbligo di dare è l’essenza del potlàc. Un capo deve dare dei potlàc, per se stesso, per il figlio, per il genero e per la figlia, per i suoi morti. Egli perde la sua autorità sulla tribú e sul villaggio, ed anche sulla famiglia, perde il suo rango tra i capi – sul piano nazionale e su quello internazionale – se non prova di essere frequentato e favorito dagli spiriti e dalla fortuna, di essere posseduto da quest’ultima e di possederla; né può provare di possedere la fortuna, se non profondendola, distribuendola, umiliando gli altri, mettendoli all’«ombra del suo nome». Il nobile kwakiutl e haida ha esattamente la stessa nozione della «faccia» del letterato o dell’ufficiale cinese. Di uno dei grandi capi mitici, che non usava dare potlàc, si dice che aveva la «faccia marcia». E l’espressione è piú esatta qui che in Cina. Nel Nord-ovest americano, infatti, perdere il prestigio, è proprio come perdere l’anima: ciò che veramente viene messo in gioco, ciò che si perde al potlàc, o al gioco dei doni, cosí come in guerra o per una colpa rituale, è la «faccia», la maschera di danza, il diritto di incarnare uno spirito, di portare un blasone, un totem, è la persona. In tutte queste società ci si affretta a dare. Non c’è un istante che si distacchi dalla normalità, anche al di fuori delle solennità e degli assembramenti invernali, in cui non si sia obbligati a invitare gli amici, a dividere con loro i frutti inaspettati della caccia e della raccolta, che provengono dagli dei e dai totem; in cui non si sia obbligati a ridistribuire tutto ciò che si è avuto da un potlàc, di cui si è stati beneficiari; in cui non si sia obbligati a riconoscere, per mezzo di doni, un servizio qualunque dei capi, dei vassalli, dei parenti; il tutto, sotto pena, almeno per i nobili, di violare l’etichetta e di perdere il rango.

L’obbligo di invitare è del tutto evidente, quando viene praticato da clan a clan, o da tribú a tribú. Esso non ha neppure senso se l’invito non è fatto a persone diverse dai componenti della famiglia, del clan o della fratria. Bisogna invitare chi può e vuole o viene ad assistere alla festa, al potlàc. La dimenticanza ha conseguenze funeste. Un importante mito tsimshian mostra in quale stato d’animo sia germogliato quel tema essenziale del folklore europeo, che riguarda la fata cattiva dimenticata, in occasione di un battesimo o di un matrimonio. Il tessuto istituzionale, su cui è ricamato, appare qui nettamente; si può vedere in quali civiltà esso abbia agito. Una principessa di uno dei villaggi tsimshian ha concepito nel «paese delle lontre» e partorisce miracolosamente «Piccola Lontra». Ella ritorna col piccolo al villaggio del padre, il Capo. «Piccola Lontra» pesca dei grandi halibut con i quali il nonno festeggia tutti i suoi confratelli, capi di tutte le tribú. Egli lo presenta loro, raccomandando di non ucciderlo, se lo incontreranno alla pesca sotto la sua forma animale: «Ecco mio nipote che ha portato questo nutrimento per voi, nutrimento che io vi ho offerto, ospiti miei». Cosí il nonno di «Piccola Lontra» divenne ricco dei beni di ogni specie che gli venivano dati, quando i suoi confratelli si recavano presso di lui a mangiare le balene, le foche e tutti i pesci freschi, che «Piccola Lontra» procurava durante le carestie invernali. Ma ci si era dimenticati di invitare un capo. Perciò, quando l’equipaggio di un canotto della tribú trascurata incontrò «Piccola Lontra», che teneva in bocca una grande foca, l’arciere del canotto uccise «Piccola Lontra» e prese la foca. Il nonno e le tribú cercarono «Piccola Lontra», finché non si seppe quanto era accaduto. La tribú dimenticata si scusò: essa non conosceva «Piccola Lontra». La principessa sua madre morí di dolore; il capo, involontariamente colpevole, portò al nonno ogni sorta di regali in espiazione. Il mito cosí conclude: «Perciò i popoli facevano grandi feste, quando nasceva il figlio di un capo e gli veniva dato un nome: perché nessuno ne restasse all’oscuro». Il potlàc, la distribuzione dei beni, è l’atto fondamentale del «riconoscimento» militare, giuridico, economico, religioso, in tutte le accezioni del termine. Si «riconosce» il capo o il di lui figlio e si diviene a lui «riconoscenti».

Il rituale delle feste kwakiutl e delle altre tribú di questo gruppo esprime talvolta il principio dell’invito obbligatorio. Avviene che una parte delle cerimonie abbia inizio con quella dei Cani, i quali sono rappresentati da uomini mascherati, che partono da un’abitazione ed entrano di forza in un’altra. Essa commemora l’avvenimento in cui la gente degli altri tre clan della tribú dei Kwakiutl propriamente detti, trascurò di invitare il clan di maggiore prestigio, quello dei Guetela i quali non vollero restare «profani», entrarono nella casa delle danze e distrussero ogni cosa.

L’obbligo di ricevere non è meno forte. Non si ha il diritto di respingere un dono, di rifiutare il potlàc. Agire in tal modo equivale ad ammettere che si ha paura di dover ricambiare, significa temere di venire «annientati» fino a che non ci sia stata restituzione. In realtà, ciò equivale ad essere già «annientati», ad avere «perduto il peso del proprio nome», ad essere o a darsi per vinti in anticipo o, al contrario, in certi casi, a proclamarsi vincitori e invincibili. Sembra, infatti, che, almeno presso i Kwakiutl, una posizione riconosciuta nella gerarchia, delle vittorie nei potlàc precedenti, consentano di rifiutare l’invito o anche, quando si è presenti, di rifiutare il dono, senza che ne segua una guerra. Ma, in tal caso, il potlàc diventa obbligatorio per colui che ha rifiutato; in particolare, è necessario rendere ancor piú ricca la festa del grasso in cui, appunto, può essere osservato il rituale del rifiuto. Il capo che si ritiene superiore rifiuta il cucchiaio pieno di grasso che gli viene presentato; esce, va a cercare il suo «rame» e ritorna con esso per «spegnere il fuoco» (del grasso). Segue una serie di formalità che mettono in risalto l’atteggiamento di sfida e impegnano il capo che ha opposto il rifiuto a dare lui stesso un altro potlàc, un’altra festa di grasso. Di massima, però, tutti i doni vengono accettati ed anche lodati. Bisogna apprezzare ad alta voce il cibo preparato per voi. Ma, accettandolo, si sa bene di rimanere impegnati. Si riceve un dono «sulla schiena». Piú che trarre un beneficio da una cosa o da una festa, si accetta una sfida; e si è potuto accettarla, perché si ha la certezza di potere ricambiare, di potere provare che non si è inferiori. Affrontandosi in tal modo, i capi finiscono col porsi in situazioni comiche, sicuramente sentite come tali. Cosí, un tempo, nell’antica Gallia o in Germania, cosí, oggi, nei nostri banchetti di studenti, di soldati o di contadini, ci si impegna a ingoiare enormi porzioni di cibo, a «fare onore» in modo grottesco a colui che ha fatto l’invito. L’impegno viene mantenuto anche nel caso in cui si è soltanto l’erede dello sfidante. Astenersi dal dare, cosí come astenersi dal ricevere e dal ricambiare, equivale a derogare a un impegno.

L’obbligo di ricambiare è tutto il potlàc nella misura in cui non consiste in una mera distruzione. Tali distruzioni, molto spesso sacrificali e fatte a beneficio degli spiriti, non devono, sembra, essere ricambiate tutte incondizionatamente, soprattutto quando sono opera di un capo superiore di un clan o di un capo di un clan già riconosciuto superiore. Normalmente, però, il potlàc deve sempre essere ricambiato ad usura, come pure ad usura devono essere ricambiati tutti i doni. Il tasso va in genere dal 30 al 100% all’anno. Anche chi riceve una coperta dal proprio capo, per un servizio ricevuto, è obbligato a ricambiare il dono con due coperte, in occasione del matrimonio della figlia del capo, dell’intronizzazione del figlio del capo, ecc. È pur vero che quest’ultimo gli distribuirà, a sua volta, tutti i beni che otterrà nei futuri potlàc in cui i clan contrapposti gli renderanno i suoi benefici.

L’obbligo di ricambiare degnamente è imperativo. Si perde la «faccia» per sempre, se non si ricambia ciò che si è ricevuto, o se non si distrugge un valore equivalente.

La sanzione dell’obbligo di ricambiare è la schiavitú per debiti. Essa opera almeno presso i Kwakiutl, gli Haida e i Tsimshian. Si tratta di un istituto del tutto paragonabile, per natura e funzione, al nexum romano. L’individuo che non ha potuto restituire ciò che ha ricevuto in prestito o il potlàc, perde il proprio rango e anche quello di uomo libero. Presso i Kwakiutl, quando un individuo di cattiva reputazione prende a prestito qualcosa, si dice che «vende uno schiavo». È inutile fare notare ancora l’identità tra questa espressione e quella romana.

Gli Haida dicono anche – come se avessero ritrovato per proprio conto l’espressione latina – a proposito di una madre che offre un dono di fidanzamento fatto in tenera età alla madre di un giovane capo: che essa «mette un filo su di lui».

Analogamente al kula trobriandiano, il quale non è altro che un caso estremo di scambio di doni, il potlàc, nelle società della costa del Nord-ovest americano, non è altro che una specie di prodotto mostruoso del sistema dei regali. Almeno là dove esistono le fratrie, come presso gli Haida e i Tlingit, restano importanti tracce della antica prestazione totale, cosí caratteristica, per altro, degli Athabasca, l’importante gruppo di tribú imparentate. Si scambiano regali a proposito di tutto, di ogni «servizio»; e tutto viene ricambiato successivamente o subito per essere ridistribuito immediatamente. I Tsimshian hanno conservato grosso modo le stesse regole. E in numerosi casi esse agiscono anche al di fuori del potlàc, come presso i Kwakiutl. Non insisteremo su questo punto, data la sua evidenza: i vecchi autori non descrivono il potlàc con termini diversi, per cui è lecito domandarsi se esso costituisca una istituzione distinta. Ricordiamo che presso i Chinook, una delle tribú peggio conosciute, ma che sarebbe stata tra le piú importanti da studiare, la parola potlàc vuol dire dono

  • MARCEL MAUSS – Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche  Scarica
Per inserire commenti devi autenticarti.
Nessun commento.