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HENRI BERGSON - Saggio sui dati immediati della coscienza, cap. 2, in Opere - Imperfezione II

In questo brano tratto dal Saggio sui dati immediati della coscienza, troviamo la nozione di” durata” che rimarrà centrale in tutta l’elaborazione filosofica di Bergson. Essa viene contrapposta, in quanto tempo autentico, qualitativo e interiore, quindi personale e imperfetto come la nostra stessa essenza, al tempo omogeneo e “spazializzato” della fisica e del senso comune.

In breve, si dovrebbero riconoscere due specie di molteplicità, due possibili significati del termine distinguere, due concezioni, l’una qualitativa e l’altra quantitativa, della differenza tra il medesimo e l’altro. Purtroppo, siamo talmente abituati a spiegare l’uno con l’altro questi due significati dello stesso termine, e addirittura a scorgerli l’uno nell’altro, che ci risulta molto difficile distinguerli, o per lo meno esprimere questa distinzione attraverso il linguaggio. [...]

Diviene allora evidente che, al di fuori di ogni rappresentazione simbolica, il tempo non assumerà mai per la nostra coscienza l’aspetto di un mezzo omogeneo, in cui i termini di una successione si esteriorizzano gli uni rispetto agli altri. Ma a questa rappresentazione simbolica perveniamo naturalmente, per il solo fatto che, in una serie di termini identici, ogni termine assume per la nostra coscienza un duplice aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all’identità dell’oggetto esterno, l’altro specifico, perché l’addizione di questo termine dà luogo a una nuova organizzazione dell’insieme. Di qui, la possibilità di dispiegare nello spazio, nella forma di molteplicità numerica, ciò che abbiamo chiamato una molteplicità qualitativa, e di considerare l’una come l’equivalente dell’altra. Ora, da nessuna parte questo doppio processo si compie così facilmente come nella percezione di quel fenomeno esterno, inconoscibile in sé, che assume per noi la forma di un movimento. In questo caso abbiamo proprio una serie di termini identici tra loro, poiché si tratta sempre dello stesso mobile; ma d’altra parte, la sintesi operata dalla nostra coscienza tra la posizione attuale e ciò che la nostra memoria chiama la posizione anteriore, fa sì che queste immagini si compenetrino, si completino e che in qualche modo si prolunghino le une nelle altre. Quindi, è soprattutto attraverso l’intermediario del movimento che la durata assume la forma di un mezzo omogeneo, e che il tempo si proietta nello spazio. Ma, se non ci fosse stato il movimento, ogni ripetizione di un fenomeno esterno ben determinato avrebbe suggerito alla coscienza lo stesso modo di rappresentazione. Così quando sentiamo una serie di colpi di martello, i suoni, in quanto sensazioni pure, formano una melodia indivisibile, dando ancora luogo a ciò che abbiamo chiamato un progresso dinamico: ma, sapendo che agisce la stessa causa oggettiva, dividiamo questo progresso in fasi che da questo momento consideriamo identiche; e poiché questa molteplicità di termini identici non può più essere concepita se non in base a un dispiegamento nello spazio, perveniamo di nuovo e necessariamente all’idea di un tempo omogeneo, immagine simbolica della durata reale. Insomma, con la sua superficie, il nostro io tocca il mondo esterno: e, sebbene si fondino le une nelle altre, le nostre sensazioni successive mantengono qualcosa dell’esteriorità reciproca che caratterizza oggettivamente le loro cause; ed è per questo che la nostra vita psicologica superficiale si svolge in un mezzo omogeneo senza che questa modalità di rappresentazione ci costi un grande sforzo. Ma il carattere simbolico di questa rappresentazione diviene sempre più evidente via via che penetriamo nelle profondità della coscienza: l’io interiore, quello che sente e si appassiona, che delibera e decide, è una forza i cui stati e modificazioni si compenetrano intimamente, subendo una profonda alterazione allorchè li si separa per dispiegarli nello spazio. [...]

Quindi, per concludere, distinguiamo due forme di molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente. Al di sotto della durata omogenea, simbolo estensivo della vera durata, una psicologia attenta riesce a districare una durata i cui momenti eterogenei si compenetrano al di sotto della molteplicità numerica degli stati di coscienza, una molteplicità qualitativa; al di sotto di un io dagli stati ben definiti, un io in cui la successione implica fusione e organizzazione. Ma la maggior parte delle volte noi ci limitiamo al primo di essi, e cioè all’ombra dell’io proiettata nello spazio omogeneo. La coscienza, tormentata da un insaziabile desiderio di distinguere sostituisce il simbolo alla realtà oppure scorge quest’ultima solo attraverso il primo. E siccome l’io così rifratto, e per ciò stesso suddiviso, si presta infinitamente meglio alle esigenze della vita sociale in generale e del linguaggio in particolare, essa lo preferisce, e perde di vista a poco a poco l’io fondamentale.

Per ritrovare questo io fondamentale, così come verrebbe percepito da una coscienza inalterata, è necessario un vigoroso sforzo d’analisi, attraverso il quale i fatti psicologici interni e vivi verranno isolati dalle loro immagini dapprima rifratte, e poi solidificate nello spazio omogeneo. In altri termini le nostre percezioni, sensazioni, emozioni e idee si presentano sotto un duplice aspetto: l’uno netto, preciso, ma impersonale; l’altro confuso, infinitamente mobile e inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe coglierlo senza fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo cadere nel dominio comune.

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