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HANNAH ARENDT - La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme - Responsabilità

Hannah Arendt, assistendo alle 120 sedute del processo al gerarca nazista Eichmann, ha avviato una profonda e articolata riflessione sulla responsabilità che i singoli individui hanno riguardo alla propria condotta e ai crimi commessi come membri di una complessa burocrazia.

Eichmann, come si ricorderà, aveva sempre sostenuto di esser colpevole soltanto di avere “aiutato e favorito” i delitti di cui era accusato, e di non aver mai commesso personalmente un omicidio. La sentenza, con suo gran sollievo, in un certo senso riconobbe che l’accusa non era riuscita a dimostrare il contrario. E questo era un punto importante, poiché toccava l’essenza stessa dei crimini, che non erano crimini comuni, e la natura stessa di questo criminale, che non era un criminale comune. Implacabilmente la sentenza prese anche nota del tragico fatto che nei campi di sterminio erano stati di solito gli ospiti e le vittime a far funzionare “con le proprie mani la macchina fatale.” E a questo proposito, le cose dette nella sentenza erano più che esatte, erano la verità: “Se volessimo descrivere la sua attività con i termini usati nella sezione 23 del nostro codice penale, dovremmo dire che essa fu principalmente quella di una persona che incoraggiava altri con consigli o suggerimenti, e di una persona che permetteva ad altri di agire o li aiutava.” Ma “in un crimine così enorme e complesso come quello che stiamo considerando, a cui parteciparono molte persone, a vari livelli e in vari modi (i pianificatori, gli organizzatori e gli esecutori, distribuiti in varie gerarchie), non ha molto senso adoperare i concetti tradizionali di consiglio e istigazione. Ché questi reati furono commessi in massa, non solo per ciò che riguarda il numero delle vittime, ma anche per ciò che riguarda il numero di coloro che li commisero, e il grado in cui ciascuno dei tanti criminali era vicino o lontano dall’uccisore materiale non significa nulla, per quanto concerne la misura della responsabilità. Al contrario, in generale il grado di responsabilità cresce quanto più ci si allontana dall’uomo che usa con le sue mani il fatale strumento.”

Dopo la lettura della sentenza ci furono le consuete formalità. Ancora una volta l’accusa si levò a pronunziare un discorso piuttosto lungo in cui chiese la pena di morte, tanto più che mancava qualsiasi attenuante. E il dott. Servatius rispose in maniera ancor più breve del solito: l’imputato aveva commesso “azioni di Stato,” ciò che era accaduto a lui poteva in futuro succedere a chiunque, tutto il mondo civile si trovava di fronte a questo problema, Eichmann era un “capro espiatorio” che il governo della Germania-Ovest, violando il diritto internazionale, aveva abbandonato alla Corte di Gerusalemme sottraendosi alle proprie responsabilità.”

[…]

“Poi ci fu l’ultima dichiarazione di Eichmann: le sue speranze nella giustizia erano andate deluse, la Corte non gli aveva creduto benché egli si fosse sempre sforzato di dire la verità. I giudici non l’avevano capito: lui non aveva mai odiato gli ebrei, non aveva mai voluto lo sterminio di esseri umani. La sua colpa veniva dall’obbedienza, che è sempre stata esaltata come una virtù. Di questa sua virtù i capi nazisti avevano abusato, ma lui non aveva mai fatto parte della cricca al potere, era una vittima, e solo i capi meritavano di essere puniti. (Tuttavia egli non fece come tanti altri criminali di basso rango i quali, processati, si erano lagnati perché i capi avevano sempre detto loro di non preoccuparsi delle “responsabilità” e poi li avevano “abbandonati” — suicidandosi o finendo impiccati.) “Io non sono il mostro che si è voluto fare di me,” disse Eichmann. “Io sono vittima di un equivoco.” Non usò la parola “capro espiatorio,” ma confermò ciò che aveva detto Servatius: era “profondamente convinto di dover pagare le colpe di altri.

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