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GUALTIERO HARRISON - Dono fra reciprocità e dispendio - Dono

In questo testo di G. Harrison il tema del dono viene analizzato attraverso la lente di vari autori che a vario titolo si sono occupati della questione. Dalle riflessioni di Caillé, al concetto di dispendio (dépense) di cui parla Bataille, in cui il dono si slega totalmente da un’idea utilitaristica per diventare perdita, consumo improduttivo, alla teoria del dono di Mauss, che riconosce tre paradigmi fondamentali propri all’atto del donare: dare, ricevere, ricambiare. Dalla confutazione di tale teoria da parte di Lévi-Strauss, alle riflessioni di Godbout, Godelier e Hochschild.

Caillé e il paradigma del dono

Nelle scienze sociali esistono due paradigmi fondamentali Il primo, definito utilitarista o individualismo metodologico, concepisce l’uomo come Homo Oeconomicus, teso cioè, come detto in precedenza, a conseguire il proprio interesse personale. Questa caratteristica umana sarebbe geneticamente predeterminata, preesistente alla volontà dell’individuo. Il secondo paradigma è quello definito da Durkheim come paradigma collettivista o olistico. Esso vede l’individuo assoggettato alle regole della sua cultura e società, delle quali è il prodotto. Cultura e società preesistono allora all’individuo. Ma cultura e società non sono forse generate dagli individui? Alain Caillé si inserisce in questo dibattito affermando che entrambi i paradigmi non forniscono una spiegazione plausibile alla questione della genesi del legame sociale e propone l’assunzione di un terzo paradigma, il paradigma del dono. Il dono, dice Caillé, istituisce rapporti di obbligazione reciproca e costituisce le basi della società. Se si accetta questo paradigma allora bisogna rimettere in discussione quelli che finora sono stati i valori attribuiti a beni e servizi. Essi non avrebbero più soltanto valore di scambio, cioè un valore commerciale e neppure più solo un valore d’uso, determinato dai bisogni che si riescono a soddisfare. Beni e servizi assumono sotto questa luce un nuovo valore, il valore di legame. Il valore del bene/servizio va oltre a quello finora identificato, diventando, attraverso il dono, promotore di relazioni sociali. Il legame creato diventa più importante del bene/servizio scambiato.

Bataille e il dispendio

Anche Georges Bataille, seppure con argomenti diversi, si oppone fermamente al principio classico dell’utilità. La vita umana per Bataille non può accontentarsi di una logica dell’utile, ma ha a suo fondamento un bisogno di perdita e di dono, rimosso dall’odierna società borghese. L’utilitarismo riduce l’esistenza umana alla logica quantitativa della produzione, acquisizione e consumo di beni causando un radicale impoverimento, in quanto l’esistenza stessa viene privata del suo senso più profondo. A fondamento della vita dell’uomo, avverte Bataille, non esiste solo la mera legge della necessità (chiamata da Freud Ananke), ma anche l’Eros, il movimento pletorico e abbondante di energia che preme per trovare spazi di espressione. Altrimenti non si spiegherebbero tutti i fenomeni legati dall’idea di consumo improduttivo e di perdita senza contropartita quali il lusso, i culti, la poesia o l’erotismo. Bataille afferma che tutte queste attività sono accomunate dal principio della perdita: “L’attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione, e il consumo deve essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario, agli individui di una data società, per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività produttiva: si tratta dunque della condizione fondamentale di quest’ultima. La seconda parte è rappresentata dalle spese cosiddette improduttive. Il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in sé stesse. Orbene, è necessario riservare il nome di dépense a queste forme improduttive [...] esse costituiscono un insieme caratterizzato dal fatto che, in ciascun caso, l’accento viene posto sulla perdita che deve essere la più grande possibile affinché l’attività acquisti il suo vero senso.” Tutte queste attività richiedono sacrificio, che etimologicamente significa, dice Bataille, produzione di cose sacre. A sostegno della sua tesi Bataille porta diversi esempi, come quello dei gioielli. “Non è sufficiente che i gioielli siano belli e splendidi, il che renderebbe possibile la loro sostituzione con falsi: il sacrificio di una fortuna alla quale si è preferita una collana di diamanti è necessario alla costituzione del carattere affascinante di tale collana”. La dépense crea per mezzo della perdita, essa “restituisce al mondo sacro ciò che l’uso servile ha degradato, reso profano”. Bataille, quindi oppone il dispendio all’utile, la produzione al consumo e infine il sacro al profano. Anche Bataille, come Caillé, si domanda quali siano i fattori che tengono unita la società. Per dare una risposta a questa domanda Georges Bataille fonda nel 1936 il Collège de sociologie sacré con l’obiettivo di studiare tutte quelle attività umane che avessero “valore comuniale”, ovvero fossero creatrici di unità e coesione sociale. Il mondo sacro, per Bataille, è quello che si oppone al mondo del lavoro. Quest’ultimo, essendo caratterizzato da regolarità, ragionevolezza, regole, orari e divieti costringe alla rinuncia, al calcolo, alla posposizione del piacere a causa del dovere e alla rinuncia all’eccesso. Ma il mondo pulsionale violato conserva la sua irriducibile energia, la quale, ulteriormente potenziata dal divieto torna a scatenarsi in momenti di trasgressione. Divieto e trasgressione, come sacro e profano sono, per Bataille, non solo complementari ma anche indispensabili ai fini del mantenimento dell’equilibrio sociale e individuale. Bataille individua nel potlàc la forma primitiva della dépense e del sacro. Sia nella forma obbligatoria dello scambio che nell’ostentazione e distruzione di ricchezza vi è una sottile commistione tra spreco e desiderio di affermare il proprio prestigio e la propria superiorità. Sovrano, nelle culture in cui vige il potlàc, è chi ha il potere di perdere, chi consuma la propria ricchezza rifiutandone un uso strumentale e opponendosi a una logica produttiva e accumulativa. Sovrano è tutto ciò che si colloca al di là dell’utilità. Un altro studio che conferma come le azioni umane non siano guidate dal mero istinto utilitaristico è stato condotto da Oscar Lewis. Egli svolse un’indagine in uno dei quartieri più poveri di Città del Messico con lo scopo di misurare il tenore di vita delle famiglie del luogo e quello che emerse stupì lo stesso ricercatore: “Notevolmente elevata era la somma spesa nell’acquisto di oggetti religiosi. [...] E più una famiglia era povera, più spendeva nell’acquisto di oggetti religiosi. [...] L’unica categoria in cui le famiglie più povere avevano speso di più di quelle più ricche era quella degli oggetti religiosi. [...] Di più, gli oggetti religiosi predominavano anche fra i doni ricevuti dalle famiglie più povere; tali oggetti rappresentavano quasi la metà di tutti i doni ricevuti, mentre nel caso delle famiglie più ricche gli oggetti religiosi costituivano solo meno del 15 per cento dei regali. Il fatto che gli abitanti della vecindad avessero mantenuto il possesso degli oggetti più a lungo della maggior parte dei loro altri beni attesta il ruolo decisivo sostenuto dalla religione nella vita dei poveri. Pare anche che gli oggetti religiosi possano essere le uniche cose con cui i poveri, conservandone il possesso abbastanza a lungo, riescono a stabilire una vera identificazione”. Senza bisogno di andare in Messico, basta osservare le processioni religiose nei paesini del centro-sud italiano: è la gente più povera e disperata a privarsi, a sacrificare quel poco denaro di cui dispone appuntandolo con lo spillo sul vestito della statua del santo di turno, nella speranza di ottenere il miracolo che cambierà la sua vita. Gesti pieni di significato e di speranze, che di sicuro vanno al di là del concetto di utilità.

Una definizione di dono

Abbiamo appena visto che il dono e la perdita sono dimensioni necessarie per la vita e l’equilibrio dell’uomo. Gli esseri umani, dunque, non agiscono sempre seguendo ragioni utilitaristiche. Ma neppure in maniera completamente gratuita. Il dono non è mai gratuito. Chi dona si aspetta qualcosa in cambio. Ci si può chiedere allora che cosa sia il dono e cosa lo differenzi dallo scambio mercantile. Jacques T. Godbout in Lo spirito del dono ne dà un’eccellente definizione: “Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”. Gli aspetti discriminanti rispetto allo scambio mercantile, quindi, sono almeno tre. Il primo concerne la libertà. Il dono è libero, non vi è nessun vincolo e nessun contratto che ci spinga a donare o a ricambiare. È vero che un obbligo di ricambiare esiste, ma mai questo obbligo può essere paragonato a quello contrattuale dello scambio commerciale. Mentre la violazione di quest’ultimo è perseguibile legalmente e penalmente il primo obbligo si configura come dovere squisitamente morale, pertanto non sanzionabile legalmente. L’assenza di coercizione e di costrizione fa sì che il dono sia una scelta. La seconda differenza riguarda la valutazione che facciamo dell’altro. A differenza dello scambio mercantile nel dono non esistono garanzie. Questo presuppone ed alimenta fiducia in chi dà e in chi riceve. Ad esempio per ciò che concerne il valore del bene/servizio donato. Infatti, al contrario dello scambio mercantile, che si basa sull’equivalenza dei beni scambiati, non esistono garanzie di equivalenza nel dono o di restituzione dello stesso.

L’ultimo aspetto riguarda ancora il rapporto di reciprocità che si instaura attraverso il dono. Lo scambio mercantile è incentrato sull’abolizione del debito: al termine della transazione le parti risultano rispettivamente proprietarie del bene scambiato e prive di obblighi nei confronti dell’altra parte. Il dono, al contrario, induce all’indebitamento. Infatti, la dimensione prolungata nel tempo nella restituzione del dono crea un debito che mantiene attivo il legame tra le due o più parti. L’atto del donare non è un momento unico, ma è costituito, come anticipato nel paragrafo dedicato ai Kwakiutl, da almeno tre parti: donare, ricevere e ricambiare il dono. La lingua italiana non riesce ad esprimere adeguatamente le implicanze contenute nell’atto del donare. L’italiano possiede i lemmi “dono” e “regalo” e i loro rispettivi verbi ma questi termini sono vaghi, se non addirittura contraddittori. Infatti, siamo soliti associarli a un atto gratuito, mentre il dono è tutt’altro che gratuito. La parola italiana “regalo” sembra non contenere il “rovescio della medaglia” del donare, ovvero la creazione del debito. Anche quest’ultimo termine, debito, in italiano sembra essere relegato quasi esclusivamente alla sfera economica o, se riferito a rapporti privati, ha spesso una connotazione negativa. Sembra quasi che si voglia inconsciamente negare la possibilità di potersi trovare in quello stato che invece è normale nei rapporti comuni tra persone, anche se non viene percepito come tale. Lo stato di debitore, appunto.

Tra genitori e figli, tra amici, nella coppia si dona a volte di più di quanto si riceva, ma non per questo ci si sente creditori o debitori. Il dono è uno strumento indispensabile nella creazione e nel mantenimento dei rapporti: la situazione di squilibrio che si viene a creare permette che la relazione rimanga “in tensione”, viva. Anzi, è proprio la situazione contraria, quella di equilibrio, che sancisce la rottura del rapporto. Basti pensare alla restituzione dei regali alla fine di un rapporto sentimentale: il debito viene annullato e si ritorna alla parità. L’idea del dono gratuito, del dare senza cercare nulla in cambio sono entrate nella nostra cultura probabilmente attraverso la religione cristiana e la predicazione del Vangelo, dove il dare viene esaltato e il ricevere scoraggiato: “Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate coloro che vi amano che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate di ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.” Nelle società primitive il dono era locale e rivolto sempre a persone concrete e conosciute. La religione, invece, ha creato una vasta comunità universale e impersonale dove occorre donare a tutti. Inoltre, le religioni hanno favorito la radicalizzazione del dono, visto che diventa persino possibile donare se stessi e la propria vita. Il simbolo stesso della croce riporta alla memoria il sacrificio di un uomo che ha speso tutta la sua vita per l’umanità e che non solo non è ricambiato, ma è rifiutato, il suo dono non viene accolto. Eppure il suo gesto estremo è ancora donare, donare persino la sua vita per chi non lo merita. Cosa può esserci di più gratuito?

Infine, va ricordata anche una sorta di interiorizzazione del gesto che presiede al dono. Il dono primitivo, infatti doveva essere mostrato nei potlàc, perché rappresentava la messinscena della generosità del donatore. Al contrario, il dono religioso, in particolare quello cristiano, non deve essere ostentato. Il paradosso però è che più ci si mostra disinteressati e più ci si merita la ricompensa divina. Quindi, anche il dono cristiano alla fine “ritorna”, come il dono primitivo, solo che non ritorna nella maniera orizzontale delle società arcaiche, dove lo scambio avveniva tra pari, ma ritorna in maniera verticale, da Dio all’uomo.

Quando si riceve un dono si prova quasi sempre una duplice emozione: un senso di gioia legato alla gratitudine per l’autore del dono ed un certo imbarazzo causato dal fatto di essere automaticamente passati nella condizione di debitori. Tuttavia, ricevere un dono è sempre piacevole, bisogna ammetterlo. E bisogna riconoscere anche che a volte, in queste circostanze ci si comporta un po’ da ipocriti, pronunciando frasi fatte come “Non ti dovevi disturbare!” o “E’ solo un pensiero!” solo perché sembra gentile. Accettare un dono significa accettare la relazione con l’altra persona. Spesso l’inizio di un nuovo rapporto è proprio segnato da un regalo. Se il regalo si accetta si crea immediatamente una situazione di squilibrio che “accende” la relazione, se invece si rifiuta è il segnale che non ci si vuole sbilanciare, non si vuole creare una situazione di debito – e quindi di relazione - con l’altro. Ma rifiutare un dono può rivelarsi molto offensivo in certe situazioni o in certe culture. Tra i Kwakiutl, per esempio, equivale a dichiarare guerra. 3.4 Ricambiare Perché ci sentiamo obbligati a restituire? Secondo Mauss l’oggetto donato porta con sé un’anima che costituisce l’identità del donatore, per cui il destinatario non riceve soltanto un oggetto ma anche l’associazione di quell’oggetto con l’identità del donatore. Mauss porta come esempio lo “hau” maori. “Hau” significa “spirito del dono”. Lo “hau” viene trasferito dal donatore al destinatario attraverso il dono e può, anzi deve ritornare al suo proprietario originale attraverso lo stesso dono o un equivalente. Per i Maori lo spirito dell’oggetto è dotato di una forza propria che lo spinge a tornare nel luogo di origine. Nelle isole oceaniche, invece, non ricambiare significa perdere il “mana”, ovvero la fonte spirituale di autorità e ricchezza. “Il mana polinesiano simbolizza non solo la forza magica di ogni essere, ma anche il suo onore; una delle migliori interpretazioni di questa parola è: autorità, ricchezza.”. L’interpretazione di Mauss è stata attaccata da Claude Lévi-Strauss in quanto connotata di un animismo inaccettabile, dice Lévi-Strauss, dagli antropologi. Egli propone a sua volta un’altra interpretazione che si basa sul primato del simbolo e sull’origine simbolica della società che nasce proprio dallo scambio. L’errore di Mauss, per Lévi-Strauss, è stato quello di studiare il dono come fenomeno a sé stante piuttosto che inserirlo nel sistema più vasto della reciprocità integrata nella società. Per Lévi-Strauss la realtà dello scambio degli oggetti va ricercata in quelle “strutture inconsce” che sono la componente profonda della cultura sociale e che sono indipendenti dalle soggettività individuali. Così, per Lévi-Strauss, attraverso gli scambi si crea il mondo della reciprocità, in cui gli oggetti comunicano valori simbolici, in quanto simboleggiano sentimenti, uniscono persone e gruppi. Tuttavia la tesi di Mauss potrebbe a una seconda analisi rivelarsi tutt’al più incompleta piuttosto che sbagliata. Un’altra interpretazione è infatti possibile: lo hau o il mana non sono un valore già prestabilito come proprio dal donatore, ma piuttosto il valore prodotto dalla reciprocità, valore etico condiviso dai protagonisti dello scambio. Di parere ancora diverso è Maurice Godelier, il quale rifiuta l’idea del primato del simbolo di Lévi- Strauss e propone una teoria sociologica. Sarebbero meccanismi sociologici infatti, secondo Godelier, a indurre gli individui a donare. Godelier è convinto che ciò che "apre la strada al dono è la volontà degli uomini di creare dei rapporti sociali". Infine, molto interessante appare la teoria illustrata da Hochschild nel suo saggio “Economia della gratitudine” in cui si occupa in particolare della coppia e di come le peculiarità di genere incidano nel rapporto. Nella coppia si dona spesso per il piacere di vedere felice il proprio compagno. Sono proprio questi gesti che creano “uno stato di debito reciproco che, nutrito da surplus e da sorprese [...] fa sì che ciascuno possa dire dell’altro: «gli devo tanto». Tale sistema è tutt’altro che altruistico: appare tale solo se letto con una lente utilitaristica. Il «guadagno», il ritorno esiste, ma va cercato in un appagamento che non è oggettivamente quantificabile. Occorre infatti tenere conto delle diverse percezioni degli attori”. È cosa abbastanza frequente sentir dire da persone di cui raccogliamo sfoghi o confidenze frasi come “gli ho dato tanto” oppure “bisogna anche dare, non solo prendere!”

L’obbligo della restituzione costituisce l’atto fondamentale del dono. Come detto in precedenza si tratta piuttosto di un obbligo morale che di altro tipo, ed è proprio la mancanza di garanzie sulla restituzione, la scommessa del dono, che crea il legame sociale. Caratteristica distintiva del dono rispetto allo scambio mercantile è la libertà, come detto nel paragrafo introduttivo di questo capitolo. La libertà di restituire quando e come si vuole. Pur nel rispetto di questa libertà esistono però delle regole e dei limiti al quando ed al come deve avvenire la restituzione. Ad es. il regalo dato in cambio deve essere di pari o di maggior valore, non “basta il pensiero” come si è soliti dire. La data della restituzione è dilazionata nel tempo, è vero, ma un ritardo eccessivo, così come un dono di valore molto inferiore a quello elargito possono creare tensioni in un rapporto, in quanto creano asimmetria.

Il dono in quel caso può rivelarsi un’arma. È quello che succede nelle tribù del Nordamerica, dove il dono non ricambiato rende inferiore colui che lo ha accettato.

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