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TOMMASO MORO - Utopia - Libro Secondo, 1516 - Repubblica

Rifiutando le disuguaglianze, l’ingiustizia sociale e la corruzione come male endemico dell’Inghilterra di Enrico VIII, Tommaso Moro individua i caratteri della Repubblica ideale e descrive la sua Utopia, un’isola abitata da uomini e donne tutti uguali che vivono in comunità.

L’isola degli Utopj, larghissima nel suo mezzo, si stende duecentomila passi, e per lungo tratto non si stringe molto, ma ver la fine d’ambedue i capi si va assottigliando: i quali, piegati in cerchio di cinquecentomila passi, fanno l’isola in forma della nuova luna. Questi suoi corni, dal mare combattuti, sono distanti uno dall’altro circa undici miglia, ed il mare, tra essi dai venti difeso, fa come un piacevol lago e comodo porto; di onde l’isola per suo bisogno manda le navi agli altri paesi: la bocca da una parte con guadi e secche, dall’altra con aspri sassi mette spavento a chi pensasse d’entrarvi come nemico. Quasi nel mezzo di questo spazio è un’alta rupe, quale perciò non è pericolosa, sopra di cui in una torre da loro fabbricata gli Utopiensi tengono il presidio: molte altre rupi vi sono nascoste e perigliose. Essi solamente hanno cognizione dei canali: indi avviene di raro che alcun esterno, che non sia da uno di Utopia guidato, vi possa entrare; quandochè essi a fatica v’entrano senza pericolo, non si reggendo a certi segni posti nel lido, i quali, essendo mossi dai luoghi soliti, guiderebbono ogni grande armata nimica in precipizio. Dall’altra parte è un porto assai frequentato, e dove si scende, fortificato dalla natura e con arte in tal guisa, che pochi uomini lo possono difendere da copioso esercito. Ma come si narra, ed anco la qualità del luogo ne dà indizio, quella terra anticamente non era dal mare circondata. Utopo, che le diede il nome, perché prima si nomava Abraxa, e ridusse coloro che l’abitavano da una vita rozza e villesca a questa foggia di vivere umano e civile, nel quale vincono quasi tutte le generazioni degli uomini; preso in un tratto il luogo, tagliò quindicimila passi di terreno, col quale era la Utopia continuata a terra ferma, e la fece isola. […]

Sono nell’isola cinquantaquattro città grandi e magnifiche di medesima favella, istituti e leggi, e quasi all’istesso modo situate, quanto il luogo ha permesso. Le più vicine sono scostate una dall’altra miglia ventiquattro: ma niuna è tanto lontana dall’altra, che non vi possa andare un pedone in un giorno. Ogni città non ha meno di ventimila passi di terreno d’ogni intorno: ed alcune più, come sono più scostate una dall’altra. Niuna brama di ampliare i suoi confini, riputandosi gli abitanti piuttosto lavoratori dei campi che tengono, che padroni.

Niuna famiglia rusticana ha meno di quaranta persone, oltre due schiavi. Ad essa è preposto un padre ed una madre di famiglia per età e costumi ragguardevoli, e ad ogni trenta famiglie dassi un capo. Tornano nella città ogni anno venti di ciascuna famiglia, i quali sono stati in campagna due anni. In luogo di questi vengono altri venti dalla città, perché siano nelle opere villesche ammaestrati da quelli, che per esservi stati un anno, sono di tali opere più esperti; e l’anno vegnente ammaestrino gli altri, a fine che non si trovino tutti del lavorare i campi ignoranti, e nel raccogliere la vettovaglia non commettano errore. […]

Ogni trenta famiglie si eleggono ogni anno un magistrato, detto da loro anticamente Sifogranto, ed ora Filarco. Quello, che è preposto a dieci Sifogranti con le loro famiglie, si nomava Traniboro, ed ora Protofilarco. I Filarchi, che sono dugento, giurano di eleggere principe quello, che giudicheranno di comune utilità, e così danno voti segreti per uno dei quattro, che sono proposti dal popolo e si pigliano dalle quattro parti della città, uno di ciascuna. Questo magistrato dura in vita, purché non venga in sospicione di voler tirannizzare. […] Ogni cosa importante va al consiglio de’ Sifogranti, i quali ragionatone con le loro famiglie, ne consigliano tra loro, e del loro parere avvisano il senato. Talvolta nel consiglio trattasi di tutta l’isola. Usano i magistrati di non ragionare sopra cosa alcuna quel giorno, che essa viene proposta, ma la differiscono nel seguente: a fine che pensandovi sopra, deliberino quello che sia alla repubblica profittevole, e non si abbiano a pentire della loro risoluzione, come poco considerata.

Gli abiti sono uguali per tutta l’isola, eccetto che variano quanto basta a discernere il sesso, ed i maritati dai non maritati. Questa usano per ogni età; ed è vaga da vedere, e comoda all’estate ed all’inverno. […]

La maggior parte impara l’arte del padre: tuttavia se alcuno ad altra arte s’inchina, egli impara l’arte della famiglia, nella quale viene adottato; il che si fa per opera del magistrato insieme col padre di quella. Se uno, imparata un’arte, brama d’impararne un’altra, parimente se gli concede: e poi esercita qual più gli aggrada, se la città non ha più bisogno di una che dell’altra. L’officio de’ Sifogranti è specialmente di provvedere, che niuno stia ozioso, […] I quali di ventiquattr’ore tra il dì e la notte sei ne assegnano al lavoro; tre prima del pranzo e tre dopo il riposo pomeridiano di due ore. Segue la cena più sostanziosa. Vanno poi a letto verso le otto, e dormono otto ore. Il tempo che avanza, ognuno lo dispensa a suo modo, pure in opere virtuose: e molti si occupano in lettere.

[…] Ad Utopia non sono tenuti in schiavitù i prigionieri di guerra, a meno che non siano stati loro gli aggressori, né i figli degli schiavi e nemmeno quelli che si possono acquistare presso gli altri popoli, ma soltanto gli autori di azioni scellerate o – caso più frequente – di scrimini compiuti all’estero per i quali sarebbe prevista la pena di morte. Notevole è la richiesta e l’acquisto di questi ultimi per poco prezzo o anche, nella maggior parte dei casi, a titolo gratuito.

I malati, come dicemmo, vengono curati con ogni premura, senza tralasciare nulla che possa servire a restituire loro la salute, sia circa le medicine che il vitto. Se alcuno è incurabile, tenendogli compagnia, parlando con lui, e servendolo alleggeriscono la sua calamità.

Ma non ne fanno morire alcuno contra sua voglia, né mancano di servirlo nell’infermità parendo loro che questa sia onorata cosa. Ma se alcuno si uccide senza il consentimento dei sacerdoti e del magistrato, egli senza esser sepolto viene gettato in una palude. Le femmine non si maritano innanzi degli anni dodici, ed i maschi dei sedici. Se il maschio o la femmina sono trovati a lussuriare innanzi al matrimonio, vengono puniti gravemente, e privati in perpetuo del matrimonio medesimo, ove il principe non si muova a pietà di perdonar loro tale sbaglio. Il padre e la madre di famiglia, sotto il governo dei quali avviene tal mancamento, sono infamati, come poco attenti al dover loro.

Alle altre colpe non esistono pene prestabilite per legge, ma è il senato che decide a seconda della gravità caso per caso. I mariti puniscono le mogli, i padri puniscono i figli, salvo che la colpa non sia di tale gravità da richiedere, nell’interesse pubblico, l’intervento dello Stato. Ma quasi tutte le gravi colpe sono punite con la schiavitù.

Hanno poche leggi gli abitanti di Utopia quante ne bastano a un popolo così progredito. Biasimano gli altri popoli per l’eccesso di leggi e d’interpreti smisurati volumi. Parendo ritengono sia una grave ingiustizia obbligare a tante leggi l’uomo, che non si possono leggere ed essere comprese. Non ammettono avvocati, anzi vogliono che ognuno in giudizio dica la sua ragione, perché in tal modo si disputa meno, e meglio si cava la verità senza ornamento di parole. Il giudice potrà meglio ponderare le questioni poste, favorendo agli ingegni semplici contro i malvagi ed accorti: il che a fatica si può osservare nelle altre nazioni tra tante dubbiose leggi.

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