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Il diritto alle cure - Cosa si intende per accessibilità alle cure?

Garantire l’accesso universale ed efficace alle cure sanitarie per tutta la popolazione

La maggior parte dei Paesi dell’UE ha raggiunto una copertura universale per una serie di servizi sanitari di base, il che è fondamentale per affrontare con efficacia la pandemia da COVID-19. Tuttavia, la gamma di servizi coperti e il grado di condivisione dei costi variano notevolmente. L’accesso effettivo ai diversi tipi di cure può anche essere limitato a causa della carenza di operatori sanitari, dei lunghi tempi di attesa o delle lunghe distanze di viaggio per raggiungere la struttura sanitaria più vicina.

Sin dalla sua istituzione, il Servizio sanitario nazionale è stato caratterizzato dai principi di universalità ed eguaglianza, veri e propri assi portanti della riforma del 1978 che si apriva con l’affermazione espressa che “il Servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”.

Tale sviluppo del principio di eguaglianza ha consentito di mettere a fuoco tre diversi ambiti in cui il corollario dell’equità deve trovare concreta realizzazione: l’accesso alle prestazioni ed ai servizi sanitari, i risultati di salute in capo ai singoli soggetti, l’allocazione delle risorse e dei servizi secondo i bisogni.

 

Prima del Covid
Il diritto alle cure per tutti: una sfida per l’intero Sistema Sanitario Nazionale

Come recentemente affermato dal Ministro della Salute On.le Beatrice Lorenzin, assicurare a tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni socio-economiche, le prestazioni sanitarie primarie e i farmaci essenziali è una delle prerogative incomprimibili del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Anche Paesi che hanno sempre avuto un differente approccio pubblico alla salute, come gli Stati Uniti, hanno avviato dibattiti o riforme volte a estendere il più possibile la copertura sanitaria di base, per porre un freno alle diseguaglianze tra cittadini che possono permettersi un’assicurazione sanitaria e altri che non hanno la stessa opportunità.

Il nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è ancora un baluardo della salute dei cittadini, ed è ciò che garantisce a tutti, anche agli indigenti, l’accesso alle cure primarie anche tramite la dispensazione di farmaci essenziali per patologie importanti. I tre quarti della spesa farmaceutica totale del nostro Paese sono a carico del SSN. Un motivo di orgoglio, ma soprattutto un impegno per chi è tenuto a prendere decisioni che hanno un impatto diretto e immediato sulla salute di tutti.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che ha il compito di tutelare la salute e la sostenibilità economica dell’intero sistema, ha di fronte una sfida rappresentata dai nuovi farmaci, in particolare da quelli innovativi, che graveranno soprattutto sulla spesa ospedaliera. Dobbiamo fare i conti, d’altra parte, con l’ultima stagione di scadenza brevettuale dei cosiddetti “block-buster”, che ha consentito in questi anni, promuovendo il ricorso ai medicinali equivalenti, di tenere sotto controllo la spesa farmaceutica territoriale,

Nel prossimo futuro andranno individuate nuove strade per assicurare ai cittadini le cure di cui hanno bisogno, ma per farlo servono strategie condivise a livello globale. La globalizzazione ha toccato infatti tutte le fasi della vita del farmaco, dalle sperimentazioni cliniche alla produzione e commercializzazione delle materie prime, dal fenomeno della contraffazione alla farmacovigilanza, senza trascurare la gestione delle informazioni scientifiche e dei dati sensibili o d’interesse economico. Solo un’ottica d’insieme e una collaborazione senza frontiere consentiranno di pilotare questa macchina complessa.

Bisogna avere però il coraggio di compiere scelte precise: ottimizzare, ad esempio, gli investimenti in Ricerca e Sviluppo e saper riconoscere, valorizzare e premiare la vera innovazione terapeutica. Anche su questo l’AIFA ha avuto il coraggio di indicare – attraverso l’algoritmo sull’innovatività – un modello che ha già ricevuto apprezzamento e consensi in Europa e nel Mondo.

Fondamentale è poi la collaborazione con i professionisti della salute che operano nelle singole Regioni Italiane, cui l’Agenzia fornisce supporti preziosi per l’appropriatezza prescrittiva come i nuovi Registri di Monitoraggio, le Note, il Prontuario Farmaceutico e i percorsi terapeutici decisionali pubblicati sul portale istituzionale.

Tra le priorità vi è quella di un’informazione autorevole e indipendente, che dia al cittadino fiducia e consapevolezza, dotandolo degli strumenti necessari per districarsi nel flusso di informazioni spesso parziali, inattendibili e distorte, veicolate soprattutto in rete su questioni legate alla salute e alle cure. Si assiste di frequente a casi in cui idee non validate scientificamente si trasformano per “volontà popolare” in un dato meritevole di interesse scientifico o, addirittura, di richiesta di rimborsabilità. L’onda emotiva che anche di recente sta accompagnando la vicenda di bimbi affetti da patologie gravissime e dei loro familiari, disposti a tutto pur di potere nutrire una benché minima speranza, riporta alla mente alcune vicende analoghe del passato, in cui la propaganda a scopo persuasivo, unita a un dibattito scientifico inadeguato, ha usato strumentalmente la comprensibile e legittima disperazione dei malati e del loro dolore, per oscurare e ostacolare le ragioni della scienza e della medicina. Il più delle volte, però, non esistono elementi che comprovino l’efficacia e la sicurezza di questi presunti farmaci salvifici.

In tutti questi casi spetta alle Autorità sanitarie, specie quelle regolatorie, il delicatissimo compito di assumere decisioni basate sul rigore scientifico, andando oltre le prospettive soggettive e le spinte emotive. Ciò soprattutto per rispetto verso i malati, che hanno diritto a una speranza fondata e non possono essere sacrificati sull’altare di interessi di altra natura, che impediscono le conquiste reali e sottraggono energie e risorse che andrebbero virtuosamente destinate a garantire le cure a tutti.

In un editoriale pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine, Michael Stillman e Monalisa Tailor, due medici del Dipartimento di Medicina dell’Università di Louisville, KY, denunciano “quanto sia terribilmente e tragicamente disumano che decine di migliaia di cittadini americani muoiano ogni anno per mancanza di assicurazione sanitaria”, e mettono in discussione il sistema di welfare americano e le proprie responsabilità di professionisti della salute. “In primo luogo – scrivono nell’editoriale – noi dobbiamo onorare il nostro dovere professionale fondamentale che è quello di aiutare. In secondo luogo, possiamo prendere confidenza con gli aspetti normativi e informare i nostri pazienti sulle proposte di riforme sanitarie. Infine, possiamo esercitare pressioni sulle nostre organizzazioni professionali per chiedere assistenza sanitaria per tutti.”

Essere sprovvisti di assistenza sanitaria significa non potere permettersi diagnosi precoci, interventi o cure dal costo ingente. E lo sanno bene i medici americani, che tutti i giorni incrociano nel loro percorso tanti “dead man walking”, uomini e donne che, pur avendo un lavoro, non hanno un’assicurazione sanitaria e devono rinunciare anche al diritto alla speranza. Medici che non accettano di essere impotenti e che fanno il possibile per arginare il fenomeno o favorire un cambiamento culturale.

Il diritto alla salute è uno dei principi fondamentali della nostra Carta costituzionale (art. 32), un diritto per il cittadino e un dovere per la collettività, che si coniuga con un altro pilastro, l’uguaglianza tra i cittadini. È un concetto all’apparenza semplice, ma in realtà molto complesso e tutt’altro che scontato nel suo riconoscimento e nella sua applicazione quotidiana. Significa dotare la popolazione degli strumenti formativi e informativi necessari per avere coscienza della propria salute, dei rischi evitabili connessi agli stili di vita, del valore della prevenzione e della diagnosi precoce delle patologie, garantire a tutti condizioni ambientali, lavorative e sociali compatibili con stili di vita corretti e consentire a tutti l’accesso tempestivo alla diagnosi e alle terapie e una rete efficiente di assistenza sanitaria che supporti il malato nelle diverse fasi della patologia.

Una sfida che richiede un impegno comune e condiviso del legislatore, delle Istituzioni sanitarie, dei professionisti della salute e dei cittadini. Una sfida da affrontare tutti giorni con responsabilità.

Luca Pani - link fonte

 

Durante il Covid
L’Italia ha davvero uno dei sistemi sanitari migliori in Ue e nel mondo?

L’arrivo del nuovo coronavirus in Italia ha messo al centro del dibattito pubblico e politico la qualità degli ospedali del nostro Paese, promuovendo spesso il nostro sistema. Ma è davvero così?

L’arrivo del nuovo coronavirus in Italia ha messo al centro del dibattito pubblico e politico la qualità degli ospedali del nostro Paese. Spesso, nelle cronache di questi giorni, si è citato il fatto che il nostro sistema sanitario nazionale (Ssn) sarebbe uno dei migliori al mondo. Ma è davvero così?

Vediamo come se la cava il nostro Ssn nel confronto con gli altri Paesi, europei e non solo.

 

Una conquista del 1978

Prima di addentrarci nei dati e nei numeri che descrivono la qualità dei nostri ospedali, ricordiamo che il sistema sanitario nazionale non esiste da sempre ma è anzi una conquista relativamente recente. È stato infatti istituito nel 1978.

Alla sua base, fin dalla sua nascita, il sistema sanitario nazionale (Ssn) italiano ha tre principi fondamentali: l’universalità (ossia l’estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione), l’uguaglianza (l’accesso alle cure senza nessuna discriminazione) e l’equità (la parità di accesso in relazione a uguali bisogni di salute).

I numeri sulla spesa sanitaria

Uno degli elementi di maggiore rilievo, anche se non l’unico, quando si parla di politiche in ambito sanitario è ovviamente la spesa sanitaria. In poche parole, quanto spendiamo per la sanità? Di più o di meno degli altri?

In base ai dati più aggiornati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel 2018 l’Italia ha destinato alla sanità risorse economiche pari all’8,8 per cento del Pil, una percentuale che scende al 6,5 per cento se si considera la spesa sanitaria finanziata solo con fondi pubblici. Questo dato – in calo negli ultimi anni, dal 7 per cento del 2010 – è comunque vicino alla media Ocse del 6,6 per cento.

Grandi Paesi europei come Germania (9,5 per cento), Francia (9,3 per cento) e Regno Unito (7,5 per cento) nel 2018 hanno registrato percentuali di spesa pubblica in sanità rispetto al Pil più alte delle nostre.

Sempre in base ai dati Ocse, possiamo analizzare anche la spesa pro capite per il sistema sanitario nazionale italiano. Nel 2018, questa cifra si aggirava intorno ai 2.545 dollari (circa 2.326 euro), in aumento rispetto ai 2.434 dollari (circa 2.225 euro) del 2010. Gradi Paesi europei come Germania (5.056 dollari), Francia (4.141 dollari) e Regno Unito (3.138 dollari) due anni fa spendevano più di noi.

 

I dati su medici e infermieri

Come siamo messi invece come numero di medici e infermieri? Il rapporto “State of Health in the EU: Italia, Profilo della sanità 2019” – pubblicato lo scorso dicembre dall’Ocse, dalla Commissione Ue e dall’Osservatorio europeo sui sistemi e le politiche sanitarie – contiene alcuni dati in merito.

Nel nostro Paese (dati relativi al 2017), il numero dei medici per abitante è maggiore della media europea: 4,0 per 1.000 abitanti, contro un 3,6 comunitario.

“Il numero dei medici che esercitano negli ospedali pubblici e in qualità di medici di famiglia è in calo, e oltre la metà dei medici attivi ha un’età superiore ai 55 anni: tale situazione desta serie preoccupazioni riguardo alla futura carenza di personale”, sottolineano però Ocse e Ue.

Per quanto riguarda gli infermieri, invece, il nostro Paese ne impiega di meno rispetto alla media europea: 5,8 ogni 1.000 abitanti, rispetto agli 8,5 comunitari.

 

Quanto è valido il sistema sanitario italiano

“Malgrado il ridimensionamento delle risorse, gli indicatori generali di salute e di efficacia del Ssn restano complessivamente piuttosto buoni, anche se emerge qualche segnale di difficoltà”, sottolinea in un approfondimento del 2 dicembre 2019 l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb).

Nel loro rapporto, la Commissione Ue e l’Ocse prendono in considerazione tre settori: l’efficacia, l’accessibilità e la resilienza (ossia alla capacità di un sistema sanitario di adeguarsi efficacemente a contesti mutevoli o a shock e crisi improvvise).

 

Efficacia

Per quanto riguarda l’efficacia del nostro Ssn, secondo i dati Ue e Ocse (relativi al 2016) l’Italia registra tra i tassi più bassi di mortalità prevenibile e trattabile di tutta l’Ue.

Nel 2016, nel nostro Paese 110 su 100 mila abitanti sono morti per cause di mortalità prevenibile (secondo dato migliore nella Ue, dopo Cipro), contro una media europea di 161 su 100 mila, mentre 67 su 100 mila sono deceduti per cause di mortalità trattabile (quarto dato migliore), contro una media europea di 93.

Un altro dato positivo viene dai tassi di ricoveri ospedalieri effettuati nel nostro Paese per le malattie croniche (per esempio diabete e asma), tra i più bassi dell’Ue, e dal tasso di sopravvivenza ai tumori, più alto (seppur di poco) rispetto al resto degli altri Paesi europei.

“Questo risultato è dovuto alla solidità del sistema di erogazione delle cure primarie, in cui i medici di famiglia svolgono una funzione di gatekeeper per l’accesso alle cure secondarie”, scrivono Ocse e Ue. “E un numero sempre maggiore di equipe mediche multidisciplinari prestano assistenza per acuti e per pazienti affetti da malattie croniche, nonché servizi di prevenzione per l’intera popolazione”.

 

Accessibilità

Per quanto riguarda l’accessibilità alle cure, secondo i dati Ocse e Ue, nel 2017 circa il 2 per cento della popolazione residente in Italia (in linea con la media europea) ha segnalato “un bisogno sanitario non soddisfatto”. Tra le motivazioni – come abbiamo verificato in passato – oltre ai problemi di costi, ci sono anche quelli legati ai tempi lunghi delle liste d’attesa.

Il dato del “2 per cento” è una media che sintetizza situazioni di accesso alle cure molto diverse tra loro, in almeno due sensi: da un lato il tasso di bisogno sanitario non soddisfatto è più alto tra i redditi più bassi; dall’altro lato, se si vive nelle regioni meridionali si ha più probabilità di avere un accesso alle cure meno soddisfacente (con la conseguenza che c’è una tendenza a spostarsi dal Sud al Nord per farsi curare).

Ocse e Ue rilevano anche altri due problemi, riguardo l’accessibilità del nostro sistema sanitario.

Dopo la crisi economica degli anni passati, è aumentata di 2,5 punti percentuali la quota dei pagamenti in spesa sanitaria direttamente a carico dei pazienti, passata dal 21 per cento del 2009 al 23,5 per cento del 2017. Nel resto d’Europa, la media è del 16 per cento.

In secondo luogo, come abbiamo già accennato sopra, “destano preoccupazioni” gli ostacoli presenti in Italia per la formazione e l’assunzione di nuovi medici, così come il potenziale di espansione del ruolo degli infermieri.

“La composizione anagrafica dei medici attualmente in esercizio desta preoccupazioni circa la capacità del sistema sanitario di rispondere alle esigenze sanitarie della popolazione in futuro”, scrivono Ocse e Ue. “Nel 2017 più della metà dei medici italiani in attività aveva un’età pari o superiore a 55 anni, la percentuale più elevata dell’Ue”.

 

Resilienza

Come abbiamo visto, il nostro Paese spende meno degli altri in sanità pubblica, una dinamica che negli ultimi anni ha risentito molto degli effetti della crisi economica. Questo, secondo Ocse e Ue, fa sorgere delle legittime preoccupazioni per quanto riguarda la capacità di far fronte a crisi improvvise, non solo futura ma anche attuale.

Per esempio, tra il 2000 e il 2017 in Italia è sceso del 30 per cento il numero di posti letto pro capite in ospedale, passando da 3,9 ogni 1.000 abitanti a 3,2, contro una media Ue vicina a 5 ogni 1.000 abitanti (in calo anch’essa dal 5,7 del 2000).

“La riduzione è avvenuta principalmente nelle regioni sottoposte per prime a piano di rientro (e soprattutto nelle strutture pubbliche)”, scrive l’Upb nel suo approfondimento di dicembre 2019, facendo riferimento a quelle regioni che negli anni hanno dovuto sanare disavanzi economici nella gestione della sanità locale. “Secondo alcuni osservatori, la riduzione dei posti letto, da un lato, potrebbe accrescere l’efficienza spingendo a un migliore utilizzo delle risorse e a una maggiore appropriatezza nella scelta del percorso di cura (regime ordinario, day hospital, ambulatori territoriali) e, dall’altro lato, rischia di ridurre la quantità e la qualità dei servizi”, sottolinea ancora l’Upb.

In generale, comunque, è necessario evidenziare che secondo i dati Eurostat relativi al 2017, l’Italia ha la seconda speranza di vita più alta nell’Ue, con 83,1 anni, dietro solo agli 83,4 anni della Spagna (rispetto a una media comunitaria di 80,9 anni).

Sempre in tema di speranza di vita, le sue disuguaglianze, connesse per esempio alle condizioni socio-economiche, in Italia sono inferiori alla maggior parte degli altri Stati Ue, sebbene siano comunque notevoli.

 

Le classifiche internazionali

Per concludere, vediamo brevemente che cosa dicono alcune classifiche internazionali, che periodicamente finiscono sulle pagine dei quotidiani quando si parla di valutazione dei sistemi sanitari. In un approfondimento del settembre 2018 la Fondazione Gimbe, che promuove attività di formazione e ricerca in ambito sanitario, aveva raccolto i risultati di otto di queste graduatorie, tutte costruite con metodologie diverse.

A febbraio 2019, Bloomberg News – una delle aziende leader nel mondo per quanto riguarda soprattutto le notizie di analisi finanziaria – ha pubblicato la sua annuale classifica, chiamata Bloomberg Global Health Index, che valuta la salute della popolazione in 169 Paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità, sulla base di diversi fattori come la speranza di vita, l’accesso alle cure, i fattori comportamentali della popolazione e quelli ambientali.

L’Italia era prima nel 2017 e risulta seconda nel 2019, scalzata dal primo posto dalla Spagna. Al terzo posto (2019) troviamo l’Islanda, seguita da Giappone, Svizzera e Svezia.
Un’altra classifica – sviluppata con una metodologia scientifica più solida e pubblicata a maggio 2018 – è quella della prestigiosa rivista scientifica The Lancet. Si chiama Healthcare Quality and Access Index (in italiano, “Indice di qualità e accesso ai servizi sanitari) e mette in relazione la mortalità evitabile per diverse malattie con altri elementi, come la spesa sanitaria pro capite.

Secondo le ultime rilevazioni, l’Italia è al nono posto in questa graduatoria, su 195 Paesi al mondo, davanti a tutti gli altri grandi Paesi europei e ai membri del G7. Ai primi tre posti qui troviamo Islanda, Norvegia e Paesi Bassi.

 

Conclusione

In base ai dati più recenti di Ocse ed Eurostat, il quadro che emerge sul nostro sistema sanitario è nel complesso molto positivo, con qualche elemento di preoccupazione.
Da un lato, è vero che la sanità italiana – rispetto agli altri Paesi sviluppati, in particolare a quelli europei – mostra buoni dati per quanto riguarda i tassi di mortalità e di ricovero e la speranza di vita, ma la riduzione delle risorse potrebbe causare problemi, soprattutto per il futuro.

In particolare, il calo dei posti letto (visto da alcuni come una possibile opportunità per una maggiore efficienza) e i problemi legati alle assunzioni di nuovi medici e infermieri, insieme con l’invecchiamento della popolazione e la rallentata crescita economica del Paese, potranno creare, secondo Ue e Ocse, problemi all’efficienza del nostro sistema sanitario e aumentare il suo impatto sulla spesa pubblica.

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L’universalità, l’eguaglianza e l’equità di accesso alle prestazioni e ai servizi
Funzioni

Sin dalla sua istituzione, il Servizio sanitario nazionale è stato caratterizzato dai principi di universalità ed eguaglianza, veri e propri assi portanti della riforma del 1978 che si apriva con l’affermazione espressa che “il Servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”.

Venne sancita l’obbligatorietà dell’assicurazione contro le malattie superando così, il sistema mutualistico a favore di un sistema di sicurezza sociale caratterizzato dalla universalità dell’assistenza per tutta la popolazione, attuato non più dai soppressi enti mutualistici, ma mediante il Ssn e finanziato attraverso la fiscalità generale. L’accezione soggettiva di universalità, relativa all’accesso generalizzato ai servizi, è stata progressivamente precisata facendo leva sulla situazione reddituale dei beneficiari, anche mediante la previsione della compartecipazione (o esenzione) al costo delle prestazioni, e sulla natura della prestazione sanitaria richiesta, che deve risultare appropriata. Ciò ha condotto da un’idea di universalità “forte” che poteva sintetizzarsi con il modello del “tutto a tutti a prescindere dai bisogni” caratterizzato dalla sostanziale uniformità organizzativa sull’intero territorio nazionale, a un’idea di universalità “mitigata”, ben rappresentata dal modello delle “prestazioni necessarie ed appropriate a chi ne ha bisogno”, caratterizzato dalla possibilità di differenziazione organizzativa nei singoli territori, ferma restando la garanzia del progressivo superamento delle disuguaglianze e degli squilibri sociali e territoriali, finalità assicurata anche in sede di programmazione sanitaria. Con riferimento alle prestazioni da erogarsi a carico del Ssn, il criterio-guida per compiere la selezione è senz’altro dato dal principio di appropriatezza, inteso nella sua duplice accezione di appropriatezza clinica delle prestazioni più efficaci a fronte del bisogno accertato e di appropriatezza come regime di erogazione della prestazione più efficace ma al tempo stesso a minor consumo di risorse.

Il principio di eguaglianza e il principio di universalità del Ssn costituiscono presupposto indefettibile per assicurare la coesione sociale del Paese e per contrastare le conseguenze sulla salute frutto delle disuguaglianze sociali, derivanti dalle diverse condizioni socio-economiche dei singoli territori. Alla tradizionale idea di eguaglianza in base alla quale “gli individui con lo stesso stato di salute (o di bisogno) devono venire trattati egualmente”, si è progressivamente affiancata la convinzione che “gli individui con peggiore stato di salute o con maggiore bisogno devono venire trattati più favorevolmente” (equità verticale). Tale sviluppo del principio di eguaglianza ha consentito di mettere a fuoco tre diversi ambiti in cui il corollario dell’equità deve trovare concreta realizzazione: l’accesso alle prestazioni ed ai servizi sanitari, i risultati di salute in capo ai singoli soggetti, l’allocazione delle risorse e dei servizi secondo i bisogni.

Fonte:”Libro bianco sui principi fondamentali del servizio sanitario nazionale”

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