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FRIEDRICH NIETZSCHE - La gaia scienza - Uomo

In questo brano il filosofo tedesco sviluppa una riflessione sulle diverse nature dell’uomo – distinguendo tra natura dionisiaca e apollinea – e argomenta sulle motivazioni che portano l’uomo a scegliere in quale modo agire.

Colui che è più ricco di pienezza vitale, il dio e l'uomo dionisiaco, non solo può concedersi lo spettacolo dell'orrore e della precarietà, ma perfino l’azione terribile e ogni lusso di distruzione, di dissolvimento, d'annientamento; malvagità, assurdità, deformità gli appaiono in un certo senso permesse in conseguenza di uno straripamento di forze generatrici e fecondanti che possono fare di ogni deserto ancora una contrada fertile ed ubertosa. Mentre invece il più sofferente, il più depauperato di vita avrebbe soprattutto bisogno di dolcezza, di mansuetudine, di bontà nel pensiero e nell'azione, possibilmente di un dio che fosse veramente un dio di malati, un “salvatore”; gli sarebbe quindi necessaria anche la logica, la comprensione concettuale dell'esistenza, — è la logica, infatti, a racquietare, a dar fiducia, — insomma una certa calda ristrettezza che fugasse ogni paura e un rinserrarsi in ottimistici orizzonti. In tal modo appresi poco a poco a comprendere Epicuro, l'antitesi di un pessimismo dionisiaco, e parimenti il “cristiano”, che in realtà è soltanto una specie d'epicureo e al pari di quello è costituzionalmente romantico — e il mio sguardo si acuì sempre di più per quella difficilissima e capziosissima forma dell'argomento a posteriori, i n cui si commette il maggior numero di errori, quell'argomento a posteriori per cui si risale dall'opera all'autore, dall'azione all'agente, dall'ideale a colui che lo sentì necessario, da ogni maniera di pensare e di valutare al bisogno che dietro a essa impone il suo comando. Relativamente a tutti i valori estetici, mi servo ora di questa distinzione fondamentale; in ogni singolo caso domando: “è qui divenuta creatrice la bramosia o la sovrabbondanza?”. A tutta prima potrebbe sembrar più raccomandabile un'altra distinzione — che è di gran lunga più evidente — sembrerebbe cioè più opportuno considerare attentamente se la causa della creazione sia il desiderio di fissare in forme immutabili, d'eternizzare, d’essere, oppure invece il desiderio di distruzione, di mutamento, d' innovazione, d'avvenire, di divenire. Ma, guardate più a fondo, entrambe queste specie del desiderio si mostrano ancora ambigue e in verità interpretabili proprio secondo lo schema proposto prima, e a mio parere preferito con ragione. Il desiderio di distruzione, di mutamento, di divenire può essere l'espressione della forza sovrabbondante, gravida d'avvenire (il mio terminus per tutto questo è, com'è noto, la parola “dionisiaco”), ma può anche essere l'odio della creatura mal riuscita, indigente, fallita, che distrugge, deve distruggere, perché quel che sussiste, anzi ogni sussistere, ogni essere stesso rimescola il suo sdegno, e aizza la sua ferocia; per comprendere questo modo di sentire si osservino da vicino i nostri anarchici. La volontà di eternizzare esige parimenti una doppia interpretazione. Può scaturire da gratitudine e amore: un'arte che abbia questa origine sarà sempre un’arte di apoteosi, ditirambica, forse, con Rubens; beatamente beffarda, con Hafis; piena di chiarità e d'indulgenza, con Goethe; un'arte che diffonde un omerico chiarore di luce e di gloria su tutte le cose (in questo caso, parlo di arte apollinea). Ma può anche essere quella volontà tirannica di un uomo straziato dal dolore, in lotta, martoriato, che vorrebbe imprimere in quel che è più legato alla sua persona, alla sua singolarità, in quel che è più intimo in lui, nella caratteristica idiosincrasia del suo dolore, il sigillo di una legge vincolante e di una forza coattiva, e che prende, per cosi dire, vendetta di tutte le cose, incidendo, incastrando a viva forza, marchiando a fuoco in esse la sua immagine, l'immagine della sua tortura. Quest'ultimo è il pessimismo romantico nella sua forma più significativa, sia come schopenhaueriana filosofia del volere, sia come musica wagneriana: il pessimismo romantico, l’ultimo grande avvenimento nel destino della nostra cultura.

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