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DAVID CHALMERS - Che cos'è coscienza? - Zombi

Coscienza generalmente è un termine che descrive la consapevolezza che il soggetto ha di se stesso, del mondo esterno con cui interagisce, della propria identità e più in generale di tutto quel complesso di attività interiori che vengono descritte dalla filosofia dalla psicologia dalla neurologia etc. Chalmers, in questo testo, affronta la questione di cosa sia la coscienza, sviluppando una suddivisione critica dei metodi utilizzati per stabilire e delimitare il campo di azione e definizione nel quale è lecito parlare di tale termine.

Non c’è un solo problema della coscienza. «Coscienza» è un termine ambiguo, che si riferisce a fenomeni molto diversi. Ognuno di questi fenomeni necessita di una spiegazione, ma alcuni di essi sono più facili da spiegare rispetto ad altri. Per iniziare, è utile dividere l’insieme dei problemi della coscienza in problemi «facili» e «difficili». I problemi facili della coscienza sono quelli che sembrano poter rientrare nei metodi standard delle scienze cognitive, dove un fenomeno è spiegato in termini di meccanismi computazionali o neurali. I problemi difficili sono quelli che sembrano resistere a questi metodi. I problemi facili della coscienza riguardano quelli che spiegano i seguenti fenomeni: 

  • La capacità di discriminare, categorizzare e reagire agli stimoli ambientali;
  • L’integrazione dell’informazione mediante un sistema cognitivo;
  • La riferibilità degli stati mentali;
  • La capacità di un sistema di accedere ai propri stati interiori;
  • La focalizzazione dell’attenzione;
  • Il controllo deliberato del comportamento;
  • La differenza tra la veglia e il sonno.

Tutti questi fenomeni sono associati alla nozione di coscienza. A volte, per esempio, si dice che uno stato mentale è conscio quando se ne può parlare verbalmente o quando è accessibile interiormente. Talvolta si dice di un sistema che è conscio di un’informazione quando ha la capacità di reagire sulla base di questa informazione o, più radicalmente, quando è attento a questa informazione o ancora quando può integrare questa  informazione  e  servirsene  nel  controllo  intelligente  del  comportamento.  Alle  volte  definiamo un’azione conscia proprio quando è frutto di una riflessione. Spesso diciamo di un organismo che è conscio per dire che è sveglio. Nessuno mette in discussione che questi fenomeni possano essere spiegati scientificamente. Ognuno di loro è chiaramente suscettibile a una spiegazione in termini di meccanismi computazionali o neurali. Per spiegare l’accesso all’interiorità e la riferibilità, ad esempio, abbiamo bisogno solo di specificare il meccanismo mediante cui l’informazione relativa agli stati interiori viene recuperata e resa disponibile per il racconto verbale. Per spiegare l’integrazione dell’informazione, dobbiamo limitarci a mostrare i meccanismi che assemblano le informazioni per renderle utilizzabili in processi successivi. Per descrivere il sonno e la veglia, sarà sufficiente un’appropriata descrizione neurofisiologica dei processi responsabili dei differenti comportamenti dell’organismo in ognuno di questi stati. In ciascun caso, un appropriato modello cognitivo o neurofisiologico può svolgere al meglio il compito esplicativo. Se alla coscienza appartenessero solo questi fenomeni, allora essa non sarebbe un gran problema. Sebbene ancora non siamo così vicini a una completa spiegazione di tali fenomeni, abbiamo almeno un’idea chiara di come possiamo procedere per spiegarli. Questa è la ragione per cui definisco questi problemi «facili». Ovviamente «facile» ha un significato relativo. Dare ragione di tutti i particolari prenderà probabilmente uno o due secoli di duro lavoro empirico. Tuttavia, non c’è motivo di dubitare che i metodi delle scienze cognitive e delle neuroscienze avranno successo. Il problema difficile della coscienza è il problema dell’esperienza. Quando pensiamo e percepiamo c’è un processo di informazioni che ci ronza intorno, ma c’è anche un aspetto soggettivo. Come ha sostenuto Nagel, c’è qualcosa come essere un organismo conscio. Questo aspetto soggettivo è l’esperienza. Quando vediamo, ad esempio, abbiamo esperienza di sensazioni visive: la qualità percepita del rosso, l’esperienza del buio e della luce, la qualità della profondità in un campo visivo. Altre esperienze accompagnano la percezione secondo modalità differenti: il suono di un clarinetto, l’odore della naftalina. Ci sono poi sensazioni corporee, dal dolore all’orgasmo; immagini mentali rievocate interiormente; la qualità sentita di un’emozione e l’esperienza di un flusso di pensiero conscio. Ciò che unisce tutti questi stati è il fatto che ci sia «qualcosa come» essere in loro. Sono tutti stati dell’esperienza. È innegabile che alcuni organismi siano soggetti di esperienza. È misterioso, però, il modo in cui questi sistemi siano soggetti di esperienza. Perché quando il nostro sistema cognitivo è impegnato in un processo di informazione visivo e uditivo, accade che abbiamo un’esperienza visiva o uditiva? Ad esempio la qualità del blu scuro o la sensazione  del  do  centrale?  Come  possiamo  spiegare  perché  c’è  «qualcosa  come» avere  un’immagine mentale o esperire un’emozione? Si è perlopiù concordi sul fatto che l’esperienza deriva da una base fisica, ma non abbiamo una spiegazione convincente del perché e del come avvenga una tale derivazione. Perché un processo fisico dovrebbe dare origine in generale a una vita interiore? Oggettivamente, sembra immotivato che ciò debba avvenire e tuttavia accade. Se c’è un problema che deve essere caratterizzato come il problema della coscienza, questo è quel problema. Secondo questo significato centrale di «coscienza», un organismo è conscio se c’è «qualcosa come» essere quell’organismo e uno stato mentale è conscio se c’è «qualcosa come» essere in quello stato mentale. Talvolta si usano qui termini come «coscienza fenomenica» e «qualia», ma ritengo sia più naturale parlare di «esperienza cosciente» o semplicemente di «esperienza». Un’altra maniera utile per evitare confusioni è riservare il termine «coscienza» per i fenomeni dell’esperienza, utilizzando il termine meno insidioso di «consapevolezza» per i fenomeni descritti prima, la cui evidenza è più riconoscibile. La comunicazione risulterebbe molto più agevole se venisse adottata una tale convenzione; per come stanno le cose, chi parla di «coscienza» spesso non si intende con gli altri. Molte volte sia i filosofi che gli scienziati che trattano dell’argomento sfruttano l’ambiguità del termine «coscienza». Capita spesso di trovare un articolo sulla coscienza che inizia invocando il mistero della coscienza, per mettere poi in rilievo la peculiare intangibilità e ineffabilità della soggettività e concludere esprimendo la preoccupazione di non avere ancora una teoria di questo strano fenomeno. Chiaramente qui si sta parlando del problema difficile: il problema dell’esperienza.

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