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PLATONE - La Repubblica - Cecità

Nel II libro della Repubblica, Platone conduce la ricerca attorno all’essenza della Giustizia utilizzando la consueta forma del dia-logo. Dopo le schermaglie iniziali tra Socrate e alcuni personaggi secondari, il discorso entra nel vivo quando la parola passa al personaggio di Glaucone, il quale, raccogliendo l’argomentazione esposta in precedenza da Trasimaco, per primo inquadra il discorso sulla Giustizia nella più ampia cornice descritta dal binomio visione-cecità. La posizione difesa nel dialogo da Glaucone è ben nota e si basa essenzialmente sulla riduzione della giustizia alla convenienza del più forte: quello che in greco ha nome pleonexía. Ove pertanto il giusto e l’ingiusto fossero posti in condizione di fare ciò che vogliono, senza con ciò essere visti da alcuno, Glaucone afferma che anche il primo percorrerebbe la strada del secondo, forte della sua invisibilità rispetto al controllo coercitivo e sanzionatorio della Legge. L’espediente con cui viene argomentato il ragionamento è il ricorso al mito di Gige, riportato integralmente nel passo citato e utilizzato come esemplificazione della posizione glauconiana sulla natura della giustizia. Ciò di cui questo mito parla, dunque, è la sconfinata forza che è concessa alla visione in senso attivo, soprattutto quando essa è congiunta alla possibilità di nascondersi alla vista altrui. E la stessa fulminea carriera di Gige – da umile pastore a sovrano di Lidia nel breve volgere di una notte – sta lì a dimostrare quanto assoluto sia il potere di chi si trova nella condizione di sfruttare al massimo le risorse della vista.

Glaucone: Per comprendere che, anche chi pratica la giustizia si comporta così suo malgrado e solo perché non può commettere ingiustizia, l’espediente più opportuno è ricorrere a una situazione immaginaria. Concediamo ad entrambi, all’uomo giusto e all’ingiusto, la possibilità di fare ciò che vogliono, e poi seguiamoli osservando dove i loro desideri guideranno l’uno e l’altro. Allora sorprenderemo l’uomo giusto a percorrere la stessa strada dell’ingiusto a causa di avidità, che per natura ogni essere insegue come proprio bene, quantunque la legge lo costringa con forza ad onorare l’uguaglianza. E tale possibilità si realizzerebbe al più alto grado, se essi avessero quella risorsa che ebbe un tempo, a quanto si racconta, Gige, l’antenato di Creso, re di Lidia. Egli era al servizio, in qualità di pastore, del sovrano che allora regnava in Lidia. Un giorno,  durante  un  violento  terremoto  accompagnato  dal  temporale,  la  terra  si  spaccò  e  produsse  una fenditura nel luogo in cui egli faceva pascolare il gregge. Gige la vide e scese giù pieno di stupore. Fra le molte meraviglie che scorse c’era, a quanto si narra, un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli v’infilò il capo e vide là dentro un cadavere di dimensioni sovraumane, assolutamente spoglio ma con un anello d’oro in mano. Gige se lo mise al dito e uscì. Con tale anello partecipò anch’egli alla consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato del gregge. Ma mentre era seduto con i compagni girò per caso il castone dell’anello verso di sé, all’interno della mano; e così divenne invisibile, e quelli seduti accanto a lui dissero che se n’era andato via. Egli allora, stupefatto, tocco di nuovo l’anello, voltò il castone verso l’esterno e appena l’ebbe voltato ritornò visibile. In considerazione di ciò, Gige ripeté il tentativo, per controllare il potere dell’anello: effettivamente constatò che quando voltava il castone verso l’interno egli diventava invisibile, e ritornava visibile quando lo voltava verso l’esterno. Non appena ebbe compreso ciò, fece in modo si essere incluso fra gli informatori del re. Giunse alla reggia, divenne l’amante della regina e con lei congiurò contro il re, lo uccise e prese il potere.

Se dunque esistessero due anelli così e l’uno se lo infilasse al dito l’uomo giusto e l’altro l’uomo ingiusto, credo che nessuno sarebbe così costante da persistere nella giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neppure toccarli, malgrado la possibilità di prendere al mercato ciò che volesse, di entrare nelle case e unirsi con chi gli piacesse, e di uccidere qualcuno e liberare qualcun altro a suo arbitrio e di fare tutto quanto tra gli uomini lo rendesse simile a un dio. Ma comportandosi così non sarebbe affatto diverso dall’altro uomo, anzi percorrerebbero entrambi la medesima strada. E in ciò si potrebbe scorgere una grande prova del fatto che nessuno è giusto di propria volontà, ma solo per forza, non perché ritenga la giustizia vantaggiosa di per sé: infatti ognuno, quando ritiene di poter commettere ingiustizia, la commette.

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